Domenico Pimpinella, 38 anni, di Formia. Una laurea triennale in biologia e poi la magistrale in neurobiologia. raccontaci di più sul tuo percorso universitario e sui perché di queste scelte.
La mia carriera scientifica comprende una laurea triennale in Biologia, una specialistica in Neurobiologia e un dottorato di ricerca in Neuroscienze del Comportamento, conseguiti all’ Università degli studi “La Sapienza” di Roma e presso l’istituto di ricerca EBRI (European Brain Research Institute) Rita Levi Montalcini. Prima di cominciare il dottorato di ricerca ho svolto un anno di ricerca sulla sclerosi laterale amiotrofica presso la Fondazione Santa Lucia di Roma. E attualmente dopo quasi dieci anni trascorsi nel mio laboratorio di Roma dove ho studiato per lo più la memoria sociale e l’autismo, mi sono trasferito a New York per cominciare questa nuova esperienza alla Columbia University. In realtà non ho mai scelto di fare ricerca, ma mentre preparavo la tesi triennale mi sono avvicinato alla scienza e ciò mi ha portato a scegliere successivamente Neurobiologia come specialistica e di conseguenza il dottorato in Neuroscienze. Posso quindi dire che la scienza ha influenzato in modo positivo la mia vita.
Il termine neuroscienze deriva dall’inglese neurosciences, neologismo coniato dal neurofisiologo americano Francis O. Schmitt. Egli sosteneva che se si vuole ottenere la totale comprensione della complessità del funzionamento cerebrale e mentale dovevano essere rimosse tutte le barriere tra le diverse discipline scientifiche, unendone le risorse. A che punto siamo con la ricerca?
Sono dell’idea che le barriere, e parlo di quelle che dividono, andrebbero rimosse sempre perché limitano gli scambi, che siano di natura sociale o culturale e quindi anche scientifica.
Detto questo, le neuroscienze sono state un grande esempio di integrazione ma soprattutto di collaborazione, perché fin dal principio si è capito che un organo complesso come il cervello e le sue funzioni cognitive non potevano essere studiate e comprese fino in fondo senza adottare un approccio multidisciplinare.
Da subito si è sentita l’esigenza di integrare le diverse informazioni provenienti dalle diverse discipline come la fisiologia, la biologia molecolare e l’istologia per cercare di spiegare i meccanismi complessi che regolano la mente umana. Oggi i laboratori di ricerca sono esempi di integrazione dove il gruppo è composto da ricercatori con background totalmente differenti. All’interno dello stesso laboratorio collaborano psicologi, medici, fisici, matematici, biologi molecolari, fisiologi e così via. Perché è impossibile comprendere meccanismi così complessi osservandoli e analizzandoli da un unico punto di vista. Un altro concetto fondamentale delle neuroscienze di oggi è la condivisione, l’importanza delle banche dati, oggi la condivisione della conoscenza, la collaborazione tra diversi laboratori nel mondo che viene sempre di più facilitata dallo sviluppo della tecnologia svolge un ruolo cruciale nella ricerca. A che punto siamo con la ricerca? Saremo ad un buon punto quando comprenderemo fino in fondo l’importanza che la ricerca scientifica ha sulla società e sulla vita di tutti i giorni.
Nell’immaginario comune la figura del ricercatore italiano tipo è associata alla descrizione fornita dalla saga “Smetto quando voglio”. Quanto è diversa (se lo è) la realtà?
La saga ‘Smetto quando voglio” è una bellissima parodia sui ricercatori italiani squattrinati che addirittura sono costretti a rinnegare i propri titoli di studio per poter trovare un lavoro al di fuori dell’università e benché faccia molto divertire mette in luce una problematica che invece con l’ironia non ha nulla a che vedere, ovvero il precariato. Purtroppo la situazione contrattuale di molti ricercatori italiani è precaria, con contratti da studenti spesso sottopagati e questa condizione andrebbe migliorata, tutelando il ricercatore come figura professionale. Sotto questo punto di vista c’è ancora molto lavoro da fare e capisco chi lascia il proprio Paese per ottenere condizioni lavorative migliori. Quindi anche se molto enfatizzata diciamo che la condizione di molti ricercatori in Italia è abbastanza vicina a quella descritta dal film.
Una nuova vita a New York nella prestigiosa Columbia University. Un’esperienza che cambia la vita. È quello che immaginavi da ragazzo? Onestamente da ragazzo non avrei mai immaginato di fare il ricercatore e tantomeno di vivere a New York, nonostante sia una città che mi affascina da sempre perché dinamica, in continua evoluzione ma che conserva sempre il suo fascino storico. Un’esperienza del genere ti cambia la vita, è un’occasione incredibile a livello lavorativo e di crescita personale ma comunque ha comportato dei sacrifici come quelli di essere lontano dai propri affetti e dal proprio Paese anche se oggi fortunatamente la tecnologia ha fatto passi da gigante riducendo moltissimo le distanze. Più che una nuova vita la definirei una nuova fase della mia vita, perché non sono venuto qui a Manhattan per ricominciare ma per continuare una carriera da ricercatore che è iniziata circa dieci anni fa all’istituto di ricerca EBRI Rita Levi Montalcini di Roma. La Columbia rappresenta per me e per la mia carriera un’occasione unica per evolvere e crescere scientificamente, spero di ottenere il meglio da questa esperienza sia a livello professionale che personale.