Se si chiede all’uomo della strada quale sia stata la peggiore catastrofe del Novecento indicherà la prima o la seconda guerra mondiale. E invece no, l’influenza spagnola fece molti più morti. Il grosso di quella tragedia si consumò in appena un anno, a partire dalla primavera del 1918, nel pieno della prima guerra mondiale, con un totale di morti stimato tra i cinquanta e i cento milioni, mentre quelli della grande guerra, che si concluderà a novembre dello stesso anno, furono in tutto diciassette milioni. Il ricordo della Spagnola scatena paure ataviche in questi tempi di Coronavirus. Il nome scelto per l’epidemia fu una scorrettezza verso il Regno di Spagna. In quel periodo i principali Paesi combattevano la guerra e non volevano che l’annuncio di un’epidemia avesse riflessi negativi sul morale delle loro truppe. A lungo non si disse nulla.
La Spagna, invece, era neutrale e già nella primavera del 1918 i giornali cominciarono a scriverne, poi il re Alfonso XIII si ammalò e questo dette una certa visibilità alla malattia e la si addebitò a una nazione non belligerante. Era già accaduto con la sifilide portata a Napoli dalle truppe del re di Francia Carlo VIII nel 1495 e chiamata poi a Parigi (assurdo!) il male napoletano, a Napoli il mal francese, a Varsavia il morbo gallico, a Mosca il male polacco, nei Paesi Arabi il mal cristiano. Per l’influenza spagnola sono trascorsi cent’anni e non si è individuato il paziente zero, alcuni ricercatori vi lavorano ancora oggi. Ci sono tre ipotesi principali: in una base militare del Kansas, in un’altra britannica nel Nord della Francia a Etaples, oppure sarebbe arrivata dalla Cina, ma c’è il sospetto che quest’ipotesi, affiorata già a quei tempi, sia razzista. Si ammalò un terzo della popolazione del pianeta, come dire cinquecento milioni di persone.
Pochissimi i territori che non furono interessati dalla contaminazione. Avveniva soprattutto attraverso le navi, quelle che trasportavano le truppe della Prima guerra mondiale e ancora di più quelle postali. Si salvarono soltanto alcuni luoghi sperduti come l’isola di Sant’Elena, una nel delta del Rio delle Amazzoni e l’Antartide. E soprattutto l’Australia, dove si resero conto che l’influenza si propagava verso di loro dall’emisfero Nord e applicarono una quarantena marittima rigorosa. Così evitarono la seconda ondata della Spagnola, la più terribile, a partire dall’agosto 1918 fino a novembre. Ma tolsero la quarantena troppo presto e così l’epidemia arrivò in Australia con la terza ondata, nei primi mesi del 1919. E provocò 12 mila morti. Anche con l’influenza spagnola ci furono gli eroi, i medici che s’impegnarono a combatterla. Il virus della Spagnola è di una famiglia diversa rispetto a quello del Covid-19, che invece fa parte dello stesso gruppo di quello della SARS. Diciamo che un virus può sempre avere un’evoluzione e mutare: cambiare e adattarsi.
L’esempio della Spagnola è interessante, la prima ondata non fu così forte, simile a un’influenza stagionale particolarmente virulenta. Ma poi il virus mutò e la seconda ondata fu terribile. Nel caso di un virus, bisogna sempre stare attenti all’evoluzione, alla seconda ondata i medici inizialmente pensarono che non si trattasse dello stesso ceppo, dato che era molto più letale. In tanti la scambiarono per un’epidemia di tifo. Per l’influenza spagnola, almeno agli inizi, certi governi fecero finta di nulla e non presero le misure necessarie e fu un errore madornale. Ai lettori più attenti il compito delle dovute comparazioni con quanto stiamo vivendo oggi con il covid-19. (Per gli opportuni approfondimenti leggere la ricerca di Laura Spinney, nata nel Regno Unito e residente a Parigi, autrice del libro 1918, l’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo, pubblicato in Italia da Marsilio, da questo mese anche come tascabile, pp. 348, € 11).