Tra i meno famosi della Scuola Romana ma tra i più internazionali
La Scuola Romana ha costituito un capitolo importante della vita culturale italiana a cavallo tra le due guerre. Tanti nomi, dal poliedrico Corrado Cagli all’enigmatico Emanuele Cavalli, da Giuseppe Capogrossi, uno dei padri della pittura informale italiana, a Ezio Sclavi, pittore e anche portiere della Nazionale. E, appunto, Francesco Di Cocco (1900-1989), considerato sovente un minore ma che invece, partendo dal Futurismo tra il 1917 e il 1919 e approdando successivamente ad un’arte in cui le figure sono sospese in una statica contemplazione, segna in modo decisivo la pittura della prima metà del Novecento.
Di Cocco trascorse una parte della sua vita a New York, quindi artista dalle visioni internazionali. Visse anche in Messico e in California. Stimato da Renato Guttuso, che lo definiva il più geniale della Scuola Romana, Di Cocco è stato troppo a lungo trascurato. Un pittore in grado di percorrere tante strade artistiche e tutte in modo eccellente: dalla tela ai gessetti su carta, dall’olio su carta metallizzata fino alla scultura minimale degli anni Settanta. In effetti, già negli anni Trenta Di Cocco veniva considerato pittore originale e interessante. Un ricercatore curioso, sempre attento, e spesso anticipatore delle nuove tendenze artistiche. Potremmo definirlo un’anomalia della corrente romana, uno sperimentatore a tutti gli effetti. A tal punto versatile che lo troviamo anche in veste di regista con il cortometraggio neorealistico “Il ventre della città” (1933), un viaggio nel sistema e distribuzione dei prodotti alimentari nella Capitale.