In mezzo ad una meravigliosa raccolta di verde e di boschi, in una posizione scenografica, fra monte Faggeto e monte Fragoloso, ad ottocento metri di altezza, è posto l’altopiano di Campello. Vi si giunge percorrendo la Civita-Farnese, dopo il bivio per il santuario. Si raggiunge la “Sella di S. Nicola”, tra il M. Le Pezze (m. 1001) ad Est e il M. Vele (m. 956) ad Ovest, che segna il confine tra il territorio itrano e quello di Campodimele e che segna altresì il limite più elevato tra i Monti Aurunci e gli Ausoni, e si attraversano, con una rotabile non asfaltata, zone di bellezze paesaggistiche.
Il rilievo, coronato da boschi di faggi, di carpini, di cerri e di querce, protetto da una catena di monti che compongono un suggestivo insieme di vette, offre incantevoli possibilità di scelta per la villeggiatura estiva. Dotato di un clima invidiabile sotto ogni aspetto, Campello è ricco di salutari acque, di posizioni soleggiate, dove la vita è sana e semplice. In detta contrada vi è la vetta più elevata dei monti itrani, denominata “Monte Ruazzo”, alto 1314 metri, meta annuale di escursionisti.
La località è considerata molto vetusta dal Pagnani nella sua “Istoria d’Itri” manoscritta riferendo che in questo sito furono rinvenute, a grande profondità, ossa umane di gigantesche proporzioni, da attribuire ai rozzi e antropofagi Lestrigoni. Il barone Pasquale Mattej, nel manoscritto “Ausonia”, sostiene che la contrada è stata fondata dagli amiclani (Amyclae è un villaggio greco, a 5 km. da Sparta), dopo l’abbandono della loro città distrutta dai serpenti. Il Mattej fa derivare il nome dalla parola greca “ampelos”, vite, nome che ricorre in alcune località della Grecia: Ampela è un luogo dell’isola di Creta, Ampelo è un promontorio della Macedonia, di fronte a Lemno, isola del Mar Egeo.
L’ipotesi del Mattej è risibile, perché sull’altopiano, formato da “Campello” e da “Campello Vecchio”, non è stata mai coltivata la vite. Il nome “Campello” deriva, invece, da “campus belli”, ovvero “campo di guerra”. C’è sull’altopiano una località chiamata “Campolancia”, dove – lo dicono i vecchi – si attendavano i soldati e dove furono rinvenute monete di epoca imperiale romana.
Una località di Campello, oltre Monte Calvo, a circa 2 miglia da Figline, verso occidente, porta il nome di “Erchia”, chiara corruzione di Ercole, verso cui si professava, da parte dei pastori nomadi della terra aurunca, che l’avevano come divinità protettrice durante la transumanza dai pascolo montani al piano e viceversa, un culto singolare, testimoniato da un vetusto affresco, andato perduto nei secoli.
Il culto di Ercole fu introdotto ad Itri dai greci (dagli amiclani?) approdati a Gaeta o dagli Aurunci, popolo guerriero, dall’indole violenta ed aggressiva, dal carattere psico-fisiologico forte, quale di montanari e di giganti? Ad Erchia c’erano molti pastori e bestiame. Forse c’era un santuario sulla linea dei tratturi?
Gli specchi etruschi raffigurano spesso Ercole alla fonte e a Campello c’è acqua sorgiva.All’eroe della mitologia greca rendevano grazie i pastori, per il successo degli allevamenti.
Il “Codex Diplomaticus Cajetanus” riporta che, nel 1036, il senatore Leone, figlio del duca Giovanni III, e sua moglie Letizia, donano al monastero di S. Giovanni Apostolo in Figline il casale di “Ercli”. Nel Medioevo Campello era un paese. Nel 1176 vi era barone Raulle di Carta. Il piccolo borgo contribuì alla prima Crociata (1096-99) inviando 5 uomini alla spedizione in Palestina, bandita dal pontefice Urbano II, monaco benedettino, poi beato, per liberare la Terra Santa dagli infedeli. Campello appartenne alla contea di Fondi e nel 1269 figurò, in una cedola, tassato per 33 fuochi (circa 200 persone). Esso rimase distrutto e disabitato nel XIV secolo, probabilmente per qualche terremoto tettonico (un terribile sisma ci fu nel 1349, che inferse colpi durissimi all’antico centro, che rimase svuotato), per cui l’annoso Capitolo di S. Pietro fu poi aggregato al Capitolo di S. Maria Maggiore di Itri, sotto il pontificato di Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, mercé la mediazione della contessa di Fondi, Isabella Colonna, essendo vescovo di Gaeta Pietro Flores. Dal Capitolo di S. Pietro proveniva una campanella, una volta esistente nel coro di S. Maria Maggiore. Campello era possedimento, nel giugno del 1491, di Onorato II Gaetani d’Aragona, logoteta e protonotario del regno di Napoli, conte di Fondi. Nell’inventario dei beni di Onorato è compreso il bene feudale dell’altopiano, in cui sono presenti 162 tra verri e verrini, per le cure di Matteo di Amaseno.
Con il trattato di Blois, del settembre 1504, Luigi XII, il “Padre del Popolo”, re di Napoli e di Gerusalemme, conferma ad Onorato III e a Giacomo Maria Gaetani, fratelli, il possesso delle terre nel Regno di Napoli con le rispettive giurisdizioni. Tra i possedimenti, quello del “castrum” di Campello, oltre alla terra di Itri. E’ l’anno 1502.
Della chiesa di S. Pietro si ricorda come arciprete, nel 1478, Don Giovanni Paganelli di Itri. Campello fu anche proprietà del barone Antonio De Felice, di Esperia, che, preso dai briganti alla “Forcella Rava”, gli fu imposta la taglia di 400 ducati. La stessa avventura era capitata, nel 1715, al vescovo di Gaeta, mons. Giuseppe Guerriero De Torres, mentre si recava a fare la visita pastorale alla chiesa di S. Pietro. Egli fu rapito, assieme al con visitatore, al segretario e al cameriere, dai briganti. Fu liberato, assieme ai suoi accompagnatori, solo quando la Curia di Gaeta sborsò una forte somma per il riscatto. Il figlio di Antonio De Felice, Pietro, sostenne e perse un’importante lite con il Comune di Campodimele, per cui Campello passò al duca napoletano Giovene, che popolò questa zona, ricca di boschi e di pascoli, con migliaia di capi suini, ovini e bovini. Però, per la cattiva amministrazione, per il clima freddo, per la mancanza di mezzi moderni di conservazione del foraggio, dovette vendere tutto. E dalla Banca d’Italia, sull’albeggiare del ventesimo secolo, per lire 200.ooo, passò prima ai Fondi Rustici e poi al commendatore Augusto Iaccarino. Oggi il rilievo, esteso oltre 1.100 ettari, il più vasto dei Monti Aurunci, è amministrato dall’ente statale della Forestale. Sul suo territorio vi è dell’ottima creta e sino a pochi decenni fa vi era una rinomata fabbrica di laterizi. Adesso l’altopiano è frequentato da pastori, che vi pascolano i capi bovini, ovini ed equini. I turisti che vi si recano ammirano un panorama ancora integro e vi trovano un silenzio claustrale, dove si respira una pace solenne, maestosa, come se il tempo si fosse arrestato da secoli.
L’interesse per la zona è legato anche alla presenza di alcuni pozzi d’acqua freschissima, di grandi dimensioni, costruiti per gli armenti, allo scopo di creare delle riserve d’acqua per abbeverare il bestiame. Nei rilievi vicini alle grandi spianate vi sono anche resti di costruzioni (ambienti e recinti), probabilmente ricoveri per pastori e per animali, oltre ad una vetusta e tipica capanna usata dai pastori di “Pozzo Pantozzo”. Le capanne dell’altopiano di Campello, di solito a base circolare, più raramente a base ellittica, con tetto a cono molto accentrato, di un tipo che gli etnografi designano come estremamente arcaico, avevano un solo vano nell’interno, un’unica porta d’accesso, bassa, senza finestre. In mezzo, a terra, del tetto, un bastone di legno, a cui è appeso un altro, molto lungo e regolabile per mezzo di numerose intaccature, in maniera da poter tenere sollevato un recipiente ad altezza variabile sul fuoco, facendo la funzione della catena di un camino. Tutto intorno i rozzi, primitivi giacigli per gli abitatori della capanna, una sorta di cassettone circolare, ruotante intorno alla parete interna, sollevato da terra e diviso in molti scompartimenti, un’arca o madia per il pane, alcuni sgabelli, alcuni recipienti di terracotta per l’acqua.
In queste capanne così primitive viveva, per molti mesi, una popolazione, migrante periodicamentre, ogni anno, da paesi spesso assai lontani, qualche volta addirittura dall’Abruzzo. Popolazione occupata ad allevare bestiame o nel taglio dei boschi o nella preparazione del carbone. E’ tutto silenzio e armonia in questo luogo di sogni e di incanti, dove il pastore offre all’ospite tutto quello che può e, se possibile, la squisita “farinata” (polenta con il latte), cotta a fuoco lento, rimescolata con perizia speciale e mangiata poi con il cucchiaio di legno o di corno.
Gli amanti della natura, lasciata la vettura in località S. Nicola, proseguono a piedi verso Est, sulla carrabile, a destra, percorrendo, a mezza costa, il Monte Le Pezze nel suo versante meridionale, lungo il quale si può godere un ampio panorama. Si procede sino alle falde di Monte Trina (m. 1062) tagliando per nord-est ed attraversando luoghi tipicamente carsici, con inghiottitoi, aree a macchia mediterranea, coperte di boschi a latifoglie, e pinete di rimboschimento. Altro sentiero praticato dai cultori della natura è quello che, partendo dalla località “Marciano”, folta di uliveti, si giunge nella Valle di Tozze. Dopo la Fontana di Tozze, si prosegue, senza voltare, in direzione di Monte Castellone passando nel valico tra Erchia e Castellone. Poi ancora verso Monte Trina, a mezza costa, a nord del sistema vallivo di Campello Vecchio. Si procede percorrendo zone caratterizzate da peculiari fenomeni geologici come le doline carsiche fino ad una gola. Da qui si va a sinistra, in direzione nord-ovest e poi ovest, fino a Valle Trasto. Macchia mediterranea nella prima parte del percorso, con oliveti, sorbo, lentisco, rosmarino, poi submontana. A primavera alcuni campi sono leggiadramente cosparsi di varie specie di orchidee spontanee. Ogni tanto capita di osservare le evoluzioni di due specie di falconiformi, la poiana e il falco pellegrino,bellissimo predatore, e di quelle del nibbio bruno, dell’astore, dell’aquila reale e del gheppio.
L’incontaminato fascino di Campello ci rievoca immagini proustiane. Dalla sua sommità l’occhio spazia, nelle giornate limpide, non solo sulle campagne vicine e sul golfo di Gaeta, ma addirittura sul golfo di Napoli con le sue isole. Campello abbraccia, quindi, un panorama fantastico, uno scenario di incomparabili bellezze naturali, che costituiscono quel richiamo della montagna, che deve portare ad una completa valorizzazione della località.