I reperti archeologici in corso di scavo a Formia presso l’Acquedotto Romano nel rione Mola, dapprima divulgati dal Comune di Formia, sono stati successivamente argomentati con grande risalto da Salvatore Ciccone nella mia pagina Facebook, che con lui condivido nell’amicizia consolidata da molti anni.
A molti sarà noto il suo impegno nelle studio delle testimonianze architettoniche specialmente di epoca romana nella competenza di architetto e non limitatamente al ristretto ambito locale, con una produzione di innumerevoli articoli su riviste, serie editoriali ed atti di convegni, e professionalmente esercitata in interventi di recupero, ultimamente del cosiddetto “Tempio” nella villa romana di Giànola; inoltre il suo schieramento in difesa del patrimonio culturale insieme a suo padre Giovanni, insegnante di materie artistiche, di non minore memoria nei suoi allievi come pure per mia stessa amicizia.
Perciò in questa pagina ho chiesto a Salvatore Ciccone di far capire la consistenza e i valori delle succitate scoperte nella storia e nella attualità di Formia.
(Marchese) In che consistono queste scoperte nell’area del dismesso distributore di carburante di via Emanuele Filiberto, accanto all’Acquedotto Romano?
(Ciccone) Nelle trincee di sondaggio eseguite dalla Soprintendenza Archeologica e preventive al ripristino del distributore di carburante, per quello che è dato di vedere a distanza nella parte occidentale del piazzale, da alcune foto pubblicate sul link del Comune di Formia e nel rispetto del procedimento in atto, si può comunque descrivere con certezza l’entità dei reperti.
Nel cavo più grande a meno di un metro di profondità è emerso un tratto rettilineo di un basso muro in blocchi di calcare di tipo poligonale, ma di contenute dimensioni, con la faccia rivolta verso monte e rinfiancata con muro in opera incerta spesso circa mezzo metro. Invece dalla parte posteriore e irregolare dei blocchi si notano distese grosse scaglie di calcare di omogenea dimensione, similmente presenti anche in un secondo cavo verso la via. Queste scaglie non possono quindi rappresentare il limitato cuneo di colmatura usualmente costituito dietro quel tipo di muratura con la risulta di lavorazione dei blocchi e pertanto di varia pezzatura; inoltre il muro avrebbe dovuto avere la faccia rivolta verso il mare, se fosse stato solo di contenimento del terreno secondo il pendio naturale. Ma la cosa più rilevante e che chiarisce la natura dell’opera è la direzione del muro, la stessa della faccia illogicamente sghemba del vicino serbatoio dell’acquedotto romano.
(Marchese) Allora pensi che le struttura emersa sia in relazione all’acquedotto e per quale impiego?
(Ciccone) Si tratta in realtà di una sostruzione viaria, la cui presenza conferma la mia ipotesi sull’antico tracciato della via Appia nella parte corrispondente al medievale borgo di Mola, variamente pubblicata dai primi anni 1990 e poi nel 2000 nella “Storia Illustrata di Formia”. Infatti non mi aveva mai convinto che il percorso antico della “Regina Viarum” fosse in quella parte pervenuto fino ai nostri giorni e cioè da via Lavanga, sul tratto originario, nel largo Paone e poi in via Abate Tosti, prima degli interventi otto-novecenteschi passando attraverso la porta dell’Orologio con uno zigzag in via Provenzali: impossibile un andamento così tortuoso per questa via caratterizzata da lunghi rettilinei, affinché fosse più agevole ai movimenti militari e ai traffici commerciali; altrettanto improbabile il suo transito lungo quel tratto di costa interessato alla portualità antica, praticamente interferendo con i trasbordi delle banchine.
(Marchese) Su quale argomento avevi proposto la tua ipotesi e perché questa stenta ad essere riconosciuta?
(Ciccone) Principalmente considerando che la via sarebbe potuta passare tanto più facilmente nel piano più alto immediatamente a monte, dove infatti vi è l’antica presenza di via della Conca, subito fuori l’ambito delle antiche mura interessato all’anfiteatro: non a caso il luogo si chiama Caposelice, nei documenti “caput silice”, cioè il termine del rettilineo del selciato della via Appia adottata come ‘decumano massimo’, il principale asse strutturante della città.
(Marchese) Sono visibili delle tracce che indicano il passaggio di questa ipotetica via originaria?
(Ciccone) In via della Conca è frequente nei muri l’impiego di frammenti di lastricato di basalto, ma essa si presenta troncata alla svolta con via Maiorino. Tuttavia il suo ipotetico prolungamento rettilineo risalta in corrispondenza delle rovine dell’acquedotto romano vicino la chiesa di S. Giovanni Battista, dove il “castellum aquae” o serbatoio terminale di distribuzione si presenta appunto con la faccia sghemba su quella direzione e in accorto alla carreggiata affiorata ora negli scavi: questo perché quella parete doveva presentare in favore della via una mostra d’acqua con vasca abbeveratoio, necessaria agli animali da trasporto in questa parte coinvolta ai traffici marittimi; di riscontro è l’altra fontana sul capo opposto occidentale della città in località S. Remigio, con equiparabile distanza dalle mura.
(Marchese) Curiosa è la similitudine con la moderna stazione di servizio; ma dopo questa prova evidente su quali testimonianze determini il resto del tracciato?
(Ciccone) Più oltre, dietro il caseggiato di via Emanuele Filiberto, passata via Orto del Re, sono documentati i basoli del lastricato ancora in sede ricalcati nella direzione da un soprastante muro di confine, che indicano come la via piegasse lievemente verso il ponte originario sul Rio Fresco sotto l’attuale piazza Risorgimento, per poi proseguire nel ben noto tratto tuttora in uso dell’Appia.
(Marchese) Mi sembra di capire che la struttura reperita nello scavo sollevasse la strada rispetto al terreno.
(Ciccone) Si tratta infatti di una sostruzione per elevare la carreggiata da un terreno di natura palesemente acquitrinosa, come si desume anche dal suo colore scuro, dalla fine grana e dalla compatta sedimentazione. Opere di questo tipo le troviamo sul tragitto della via Appia in medesime situazioni, come a Fondi al chilometro 119 o da Terracina verso Roma sul rettilineo affiancato al canale, con i vari restauri di ulteriori innalzamenti. Per questo, al muro affiorato a monte dovrebbe esserci il risconto di un altro parallelo a valle tale da contenere il terrapieno carrabile: imprecisabile la larghezza della via perché in relazione alle diverse circostanze, certamente consistente in questa parte presso un abbeveraggio; inoltre si deve considerare che il muro della massicciata non coincideva con l’effettiva carreggiata, invece posta più internamente, dovendosi aggiungere le banchine laterali per i pedoni anch’esse di ampiezza variabile a seconda delle puntuali esigenze. In questa variabilità si spiega come il muro affiorato, proseguito idealmente verso l’acquedotto, non affianca la parete sghemba ma incide lateralmente il serbatoio per integrarlo alla via, probabilmente connesso all’aggiunta del muro di simile opera incerta, forse per un parapetto.
(Marchese) Ma della struttura reperita sono evidenti le caratteristiche di una strada?
(Ciccone) Come ho detto prima, all’interno del muro si trova una colmatura in grosse scaglie di pietra locale che si presta al maggiore isolamento della massicciata dall’acqua, ma questo stesso impiego in trincea è comunque una prassi per le vie romane, dove in pratica questa parte è quella del rudus di base su cui si sovrapponevano stati di granulometria decrescente che assicuravano il drenaggio dell’acqua piovana dalle carreggiate che, bisogna ricordare, erano inizialmente concepite glareatae ossia inghiaiate. Poi anche nella successiva pavimentazione lastricata il prosciugamento del sottofondo risultava essenziale affinché i poligoni lapidei sottoposti alle sollecitazioni non si sconnettessero.
(Marchese) Quindi la strada è stata successivamente selciata con i basoli vulcanici come vediamo presso la Fontana Romana a S. Remigio.
(Ciccone) Anche per questi elementi pavimentali si deve tener conto che all’inizio si usava la pietra del posto, qui quella bianca calcarea, e solo tardivamente diffuso ovunque l’uso di grigia pietra lavica più resistente all’usura. Tale circostanza è documentata per il territorio formiano da una epigrafe su una colonna miliare, murata nel campanile di Monte S. Biagio, la quale attesta che l’imperatore Caracalla nel 216 dopo Cristo fece ripavimentare a sue spese la via Appia per 21 miglia dal miglio 67 nel territorio di Fondi, circa 31 chilometri per terminare al miglio 88 all’ingresso occidentale di Formia presso il ponte di Rialto: questo si fece sovrapponendo il nuovo selciato sul vecchio con un interposto strato di allettamento per i basoli, come è emerso in più occasioni di scavo e per questo denominate “via Appia bianca” e “via Appia nera”.
(Marchese) Oltre a queste tracce convincenti, come e perché allora questo tratto è stato dimenticato e nemmeno sospettato?
(Ciccone) La via Appia a scuri basoli vulcanici offre lo spunto per alcune riflessioni sul tratto in questione. Ti leggo quanto scriveva lo scrittore Procopio di Cesarea nel VI secolo dopo Cristo nell’opera “Guerra Gotica” (14): “Tutte le pietre del selciato, che sono pietre molari molto dure, Appio Claudio le fece trasportare cavandole altrove, perché non si trovano in questa regione”. Quindi niente di più inesatto a fronte di più antiche testimonianze e della già accennata epigrafe di Caracalla, dove espressamente si dice che fu sostituita la pavimentazione di “pietra bianca non buona e rovinata” e questo nel 216 dopo Cristo, oltre 400 anni dopo la costruzione della via promossa nel 312 avanti Cristo da Appio Claudio. Lo storico orientale fu quindi indotto in errore perché ormai la “Regina Viarum” aveva stereotipata l’immagine con il suo selciato lavico come se fosse originario e così ancora comunemente accettato.
Questo fatto fa risaltare la convinzione che il tratto della consolare a Mola sia quello ancora transitato nel borgo solo perché nella consuetudine però di precaria memoria tradizionale; così pure emerge l’incertezza delle fonti che pertanto devono essere attentamente vagliate.
(Marchese) Ma in questo scavo si è trovata traccia del lastricato?
(Ciccone) Il riconoscimento della scoperta attuale si inceppa proprio sullo stereotipo della via antica: non c’è traccia del selciato. Infatti alla inequivocabile funzione dell’opera, se ne osserva la mancanza non solo dei basoli vulcanici, ma pure di quelli calcarei precedenti e sottoposti, oltre ad una profonda riduzione della massicciata. Tale circostanza coincide con quanto ho pure ipotizzato circa le trasformazioni medievali del borgo in funzione difensiva, in cui inserire l’opera di recupero dei materiali nella cancellazione e spostamento di questo tratto viario in un processo intenzionale e pianificato.
(Marchese) Mi puoi tracciare in sintesi queste trasformazioni?
(Ciccone) In epoca romana il sistema infrastrutturale tra viabilità e approdi si doveva presentare con collegamenti a pettine dalla via Appia antica alle banchine, il modo più razionale per scongiurare intasamenti. Alcuni di questi collegamenti sono rimasti nella costituzione del borgo di cui quello strutturante lungo le attuali vie Maiorino-Provenzali che probabilmente rappresentava l’asse di penetrazione dell’iniziale abitato dalla via Appia. Un altro più probabilmente era quello della via S. Lorenzo o “Portone Vecchio”; altrettanto certo è quello di via Orto del Re che trae il nome dal giardino pertinente il castello di committenza reale. Tuttavia essi dovevano essere più numerosi perché in relazione agli spazi di trasbordo delle banchine.
La presenza delle copiose sorgenti in quest’area dovette essere già in epoca romana l’opportunità per l’utilizzo di hydraletae cioè mulini ad acqua, contestuali ad una rete di canali di bonifica di questo suolo pantanoso ai piedi delle colline. I documenti dall’alto Medioevo individuano i mulini che hanno dato il nome al borgo a valle della ‘silice’ ossia la via Appia lastricata; a partire dal Trecento questi stessi appaiono invece a monte del selciato: qualcosa aveva dunque variato il percorso dell’Appia.
(Marchese) Quale pensi sia stata la circostanza che ha determinato la deviazione della via?
(Ciccone) La principale opera della fine del Duecento che ha investito l’intero sito è la costruzione del castello di Mola, voluto da Carlo II d’Angiò come avamposto di Gaeta e a protezione dei suoi stessi rifornimenti; è quindi probabile che per impedire il facile passaggio e rendere più efficaci le difese, il piano dell’antica via Appia dovette essere nuovamente allagato non senza aver prima disfatta la carreggiata e impiegato i materiali per una nuova Appia litorale obbligata al castello e strutturante il borgo. Nell’opera di spoglio della struttura reperita si evidenzierebbe una plurima finalità, non solo eliminare un transito che avrebbe permesso di aggirare il presidio e riutilizzare i basoli per la nuova via, ma anche quella di cavare il pietrame della massicciata almeno fin dove consentiva l’acqua: e dove destinarlo se non per la costruzione del castello stesso? Si tratta infatti di una cospicua fonte di materiali, essendo il tratto viario interessato di circa 400 metri, e che nella quantità ben si confronta con la sola mole della grande e massiccia torre cilindrica; per l’immaginabile carattere di urgenza dell’opera, questo rifornimento del cantiere edilizio costituiva una esigenza primaria. Si deve considerare che la costruzione avvenne alla fine del Trecento, quando il borgo doveva avere già una fisionomia abbastanza definita e per l’abitato e i mulini si doveva aver già esaurito quanto disponibile di antiche strutture; tutto questo senza considerare la possibilità di un precedente fortilizio di cui si hanno labili tracce sotto quello angioino.
(Marchese) Interessante questa preesistenza difensiva; comunque il castello si sovrappone ai resti di un edificio romano.
(Ciccone) Proprio così. La struttura servita da fondazione al presidio è realizzata con una muratura reticolata d’età augustea, ma in seguito ampliata con strutture in tufo di età neroniana, e delinea una forma di punta penetrata nel mare oltre la linea delle banchine, dove ora poggia il fronte a mare delle abitazioni: di quella struttura, le tracce di condotti e di vasche un tempo decorate di marmi farebbero pensare a giochi d’acqua evidentemente alimentati dal retrostante acquedotto. A monte poi, nella via delle Terme aperta insieme alla via Emanuele Filiberto, emersero strutture termali che usualmente erano presenti presso i porti a servizio degli operatori. Tale situazione è ideale per la presenza di un tempio a Nettuno, il dio delle acque assimilato al Poseidone greco del mare, culto incrementato in onore di Augusto, egemone nel Mediterraneo dopo la vittoriosa battaglia navale di Azio contro Marco Antonio e Cleopatra, tempio del quale fa menzione una epigrafe formiana dell’epoca: il tempio si può ipotizzare su una prora navis così come a Roma era una parte dell’isola Tiberina sulla quale era però eretto il tempio di Esculapio.
(Marchese) Quindi la via medievale venne fatta passare sulle banchine del porto e fino dove?
(Ciccone) In alcune fotografie si vede come le case posino su una sorta di platea esposta ai marosi e quella doveva essere l’antica banchina. Cosi del resto doveva presentarsi nell’ansa della “Spiaggia di Mola” attuale largo Paone e che permise il passaggio della nuova via Appia e la costruzione degli edifici: ma questo avvenne probabilmente durante il viceregno spagnolo nella seconda metà del Cinquecento; prima l’accesso da occidente del borgo doveva effettuarsi tramite la via Maiorino dal tronco residuo della via Appia cioè l’attuale via della Conca e per questo non disfatto.
(Marchese) Quindi nel miglioramento novecentesco della viabilità si scelse la soluzione realizzata in parte sul livello dell’Appia antica: in quella circostanza non è venuta in luce alcuna testimonianza dell’antico tracciato?
(Ciccone) Con l’abbandono di gran parte dei molti mulini ad acqua e della rete dei canali o “formali” che recepivano le acque sorgive dalle pendici del colle S. Antonio i suoli divennero più malsani e si credette opportuno, nella scia della bonifica pontina, di risanare la zona nell’occasione di una necessaria variante all’ormai inadeguato budello nel borgo. Già all’inizio del Novecento si era concepita con una doppia curva, da quella inferiore di via Vitruvio con innesto in via della Conca e quindi fino all’attuale piazza Risorgimento, praticamente interessando inconsapevolmente quasi tutto tracciato originario dell’Appia. Comunque, nella meno impegnativa realizzazione di via Emanuele Filiberto sullo scorcio degli anni 1920, si coprirono i vari canali dei quali il più corposo d’acqua desinente nel Maiorino, nome che dai documenti deriva appunto da “maior rivus”, e sfociava da sotto via Tullia nell’ansa di mare. Un altro invece, il “Gran Formale” passava alto su un muro nei pressi di via della Forma e pertanto dovendo essere tagliato dalla via, venne realizzata a monte una cascata decorativa; nell’immediato dopoguerra l’acqua venne poi ulteriormente deviata nel vicino alveo del Rio Fresco.
Qualcosa della via Appia dovette emergere durante quei lavori e una memoria la troviamo nella mappa relativa i resti delle mura cittadine, disegnata nel 1954 dallo studioso formiano Tommaso Testa e edita nel 1964 nella guida “Gaeta-Formia-Minturno” del Poligrafico dello Stato, nella quale nell’area dell’Acquedotto Romano riporta le tracce di un muro poligonale in corrispondenza della nuova chiesa di S. Giovanni e vicino una “via preromana” intercettata dall’attuale via delle Terme, entrambi con pari direzione alla stessa Appia originaria. Queste indicazioni, benché dissociate nella precarietà dei ricordi oltre che in un errato posizionamento in pianta, combaciano con l’unico reperto attuale di una strada contenuta da mura poligonali.
(Marchese) In quella occasione le arcate dell’acquedotto dovevano aver avuto una considerazione proprio in vicinanza della nuova chiesa.
(Ciccone) L’architetto Gustavo Giovannoni, estensore anche del primo Piano Regolatore aveva previsto l’Acquedotto Romano preservato in un giardino pubblico adiacente la chiesa di sua progettazione, iniziata insieme all’apertura della circonvallazione ma finita nei primi anni 1950 dal suo allievo Giuseppe Zander. Invece a contatto con le antiche arcate anche dissestate dalle bombe, all’inizio degli anni 1960 si stabilì la stazione di servizio, mentre parte delle stesse vennero fagocitate dall’ampliamento del vicino pastificio oggi Istituto Professionale; poi avvinghiate da tubazioni; il piazzale a monte sterrato e destinato a parcheggio, lavaggio e manutenzione autocarri…Oggi poi l’abbandono meno dell’aggiunta di una provvisoria pur doverosa opera di sostegno.
(Marchese) Quindi che peso daresti alle attuali scoperte?
(Ciccone) Ritengo che i reperti venuti in luce non debbano rappresentare un fatto momentaneo come molti altri similari avutisi nella Città, ma l’inizio di un obbligato intervento di recupero e valorizzazione del monumento da troppo tempo disattesi. Di più, quanto oggi si sta rinvenendo non solo fornisce informazioni preziose per la storia urbanistica di Formia, ma appartiene ad una arteria che fu archetipo della rete viaria sviluppata di pari passo all’espansione di Roma nel Mondo Antico: difatti, con il prolungamento successivo da Capua alle sponde pugliesi, fu il tramite della sua evoluzione culturale attraverso le rotte verso la Grecia e il vicino Oriente; pertanto i ritrovamenti hanno una valenza di più estesa rilevanza culturale.
(Marchese) Comunque in questa occasione con il recupero dell’acquedotto e dell’immediato tratto della via Appia si potrebbe restituire parte dei significati perduti dal borgo di Mola, privato dei mulini, delle acque e anche del suo mare dopo la costruzione del viadotto litoraneo negli anni Sessanta.
(Ciccone) Certamente, anche perché con ciò si troverebbe inserito in un circuito culturale più ampio, con una ricaduta positiva sulla cittadinanza. Bisogna però auspicare una collaborazione tra varie competenze e i cittadini, in questo caso i proprietari dei suoli e delle attività, per far coincidere i legittimi interessi di questi, quelli dell’intera città e la tutela del bene culturale: da progettista sono consapevole della possibilità di varie soluzioni. Debbo però anche sottolineare che non è più tollerabile la situazione attuale in dispregio alla normativa, sia in materia archeologica che urbanistica: riguardo quest’ultima, nei regolamenti di igiene e decoro non è concepibile l’esistenza di un’area così degradata e pericolosa in pieno centro cittadino, inoltre a contatto con la stazione di pompaggio dell’acqua potabile e ad una chiesa parrocchiale; una sistemazione va perciò necessariamente raggiunta.
In questo difficile momento che stiamo vivendo tutto ciò può sembrare fuori luogo, ma ritengo che proprio ora si fa più forte l’esigenza di cogliere ogni opportunità, soprattutto quelle sempre accantonate di fronte a facili quanto effimeri vantaggi, e che quelle possono invece fornire una più solida e duratura base al miglioramento sociale ed economico di Formia.
(Marchese) Condivido questa tua visione, tanto del significato di queste scoperte quanto della necessità che esse ridestino la capacità di progettare un nuovo futuro per Formia.
(Ciccone) Credo però che tutto ciò sarebbe più fattibile se noi cittadini dimostrassimo la giusta considerazione verso questi valori: gelosamente nostri.
(Marchese) Grazie Salvatore e speriamo di riparlare dell’argomento con altre positive novità.