Dopo cinque secoli dalla sua morte siamo qui a celebrare il grande Raffaello Sanzio. Sulla sua tomba nel Pantheon di Roma c’è questo epitaffio: “Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori” (qui giace Raffaello da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire). Lo scrisse Pietro Bembo, amico carissimo dell’urbinate, per rendere omaggio al grande genio artistico. Raffaello ha realizzato opere religiose di notevole fattura ma questa ricerca è dedicata al dipinto di una donna che affascina ancora oggi. Bisogna partire dai concetti di amore e di passione, senza i quali non si spiegherebbe l’impegno di Raffaello nell’esecuzione, la bellezza della sua opera e perché sia stato trovato il dipinto nell’abitazione privata dell’artista al momento della sua morte.
Ilaria Baratta così descrive l’amore passionale: “Nel corso dei secoli l’oggetto del sentimento d’amore è stato divinizzato, spiritualizzato, desiderato e a volte anche posseduto; l’amore è stato fonte di sospiri, tormenti, gioie e passioni. Per tutto ciò è stato da sempre ispirazione di scrittori, poeti e artisti che hanno cercato di imprimere, su carta attraverso la parola e su tela attraverso la pittura, quella miriade di sensazioni che l’amore suscita involontariamente, poiché la sola cosa certa dell’amore è che ci invade senza alcuna spiegazione, incondizionatamente. Se pensiamo a Dante e Beatrice, a Laura e Petrarca, a Boccaccio e Fiammetta, a Leopardi e Silvia, a Romeo e Giulietta, ad Amore e Psiche e a tante altre coppie letterarie e artistiche, ci rendiamo conto che queste, da tempi remoti, ci hanno affascinato, portandoci maggiormente a desiderare di conoscere le infinite storie d’amore che hanno pervaso i mondi della letteratura e dell’arte. Ed ora la nostra attenzione è rivolta a una storia di cinque secoli fa. Lui è uno dei più grandi artisti del Rinascimento, conosciuto in tutto il mondo. Nato ad Urbino nel 1483, è figlio di un altro celebre pittore, Giovanni Santi, che lavorò alla corte dei Montefeltro. È allievo del Perugino e amico del Pinturicchio; dopo aver compiuto viaggi tra Firenze e Siena, si trasferisce a Roma, dove realizzerà i suoi più grandi capolavori per volere di Papa Giulio II e di Papa Leone X. Lei è Margherita Luti, una giovane di origine senese, figlia di Francesco Luti, fornaio a Roma. Il soprannome “Fornarina” le deriva proprio dal mestiere del padre. È una donna che da cinquecento anni non smette di far parlare di sé.
Nel dipinto ha i seni acerbi e nudi, un velo trasparente a coprire il ventre e un turbante di seta a righe annodato tra i capelli. Sul braccio un monile che porta la scritta Raphael Urbinas, Raffaello di Urbino. È il nome dell’uomo che l’ha resa immortale. Su di lei poche sono le notizie certe. Una sola si rincorre da secoli. Per quegli occhi scuri e profondi, quell’uomo perse la testa. Al punto che ancora oggi il suo nome, almeno quello con il quale è divenuta famosa, evoca il mistero e a lei sono stati dedicati dipinti, libri e testi teatrali. Margherita Luti avrebbe vissuto nel quartiere romano di Trastevere, a via di Santa Dorotea 19. Qui la ragazza si sarebbe affacciata al passaggio di Raffaello, ma per alcuni invece abitava in vicolo del Cedro o in via del Governo Vecchio 48. Un giovane Raffaello camminava per le strade di Roma e dello sguardo dolce e della sua posa romantica sarebbe rimasto folgorato fino a innamorarsene. Un vero e proprio colpo di fulmine che secondo altri testimoni sarebbe sugellato da una scritta, ancora conservata, sulle mura di una casa in via del Governo Vecchio “qui abitò colei che fu amata da Raffaello Sanzio”. E che lo amò, rimanendogli fedele, anche dopo la morte dell’artista; infatti la Fornarina si rinchiuse – distrutta dal dolore – nel convento di Sant’Apollonia. Secondo Giorgio Vasari l’incontro tra il pittore e la sua musa sarebbe invece avvenuto sulle rive del Tevere. Qui la giovane donna si bagnava nuda quando incontrò lo sguardo di Raffaello. Un approccio decisamente meno romantico del primo che giustificherebbe l’ossessione del pittore per la donna e per il suo corpo, ammirato candido tra le acque del fiume e desiderato fino alla follia.
Sarebbe, sempre secondo Vasari, arrivato a minacciare di interrompere l’affresco della Loggia di Galatea a Villa Farnese se non gli fosse stata portata nello studio la sua bramata modella. Per altri ancora la Fornarina non sarebbe certo la figlia di un fornaio, socialmente troppo lontana dal mondo del pittore, ma una più verosimile cortigiana che – compatibilmente con la moda dell’epoca – aveva scelto come soprannome, o meglio come nome d’arte, proprio quello con il quale il quadro divenne poi celebre. Raffaello l’avrebbe vista la prima volta affacciata alla finestra della sua abitazione, intenta a cercare clienti però e non romanticamente assorta come vorrebbe l’altra leggenda. Un accurato studio di Giuliano Pisani ha mostrato come il termine “Fornarina” (usato nel 1772 dall’incisore Domenico Cunego) rimandi a una tradizione linguistica consolidata, attestata già nei testi del poeta Anacreonte di Teo (VI a.C.) e in numerosi documenti letterari di età antica, medievale, rinascimentale e moderna, in cui “forno” e derivati (“fornaio”, “fornaia”, “infornare”, ecc.) indicano metaforicamente l’organo sessuale femminile e le pratiche connesse all’accoppiamento. La domanda corretta che ci si deve porre, secondo lo studioso, non è “chi sia” la Fornarina (domanda alla quale dovremmo rispondere semplicemente che è una modella, e non la figlia di un fornaio – in tal senso tutta la ricostruzione che porta a Margherita Luti è pura leggenda), ma quale sia il soggetto del dipinto, che cosa rappresenti. Pisani, attraverso opportuni confronti (in particolare con Tiziano, Amor sacro e amor profano, ipotizza che Raffaello, sulla scorta di Marsilio Ficino e di Pietro Bembo, ritragga nella Fornarina la Venere celeste, l’amore che eleva gli spiriti alla ricerca della verità attraverso l’idea sublimata della bellezza, e che si distingue dall’altra Venere, quella terrestre, forza generatrice della natura, che guarda alla bellezza terrena e ha come fine la procreazione. Alla Fornarina corrisponderebbe in tal senso la Velata, identificata come Venere terrestre, sposa e madre. Nell’inventario del 1686, dopo la morte di Maffeo Barberini, viene descritta così l’opera: “un ritratto in tavola d’una donna, che tiene una mano al petto e l’altra tra le cosce, nuda, con un panno rosso”.
La posa delle mani, una appoggiata sul grembo, l’altra su un seno, rimanda alla Venere pudica della statuaria classica: la donna si copre con un velo trasparente in un gesto pudico, anche se l’occhio dell’osservatore è orientato verso ciò che la figura vorrebbe sottrarre alla vista. I capelli neri appaiono raccolti in un lungo drappo oro e blu annodato sulla nuca e impreziosito da una perlina che le orna il capo. Il viso è regolare con grandi occhi scuri, la bocca piuttosto carnosa e le gote leggermente arrossate. La perla, presente sia nella Fornarina che nella Velata, rimanderebbe al nome stesso della ragazza: Margherita deriva infatti dal termine greco margaritès che significa “perla, gemma”, anche se nel Medioevo ha assunto l’accezione abituale di elemento botanico. Perciò il piccolo ornamento sul capo sarebbe un ulteriore omaggio alla bella Margherita Luti. Il braccio sinistro della fanciulla è cinto da uno stretto bracciale blu e oro che reca la scritta “Raphael Urbinas”, firma dell’artista e vincolo amoroso. Sullo sfondo si notano un cespuglio di mirto e un ramo di melo cotogno, simboli di fertilità e di amore e simboli della dea Venere. Il ritratto è impregnato “di carnalità e sospensione, realtà terrena e carattere sfuggente, superiorità e condiscendenza per mezzo di una plastica dolce ma precisa e solida, carezzevole nell’armonico risuonare dei caldi valori cromatici”: così lo aveva definito lo storico dell’arte Nello Ponente. Poche certezze dunque e molto mistero sulla donna dagli occhi profondi che la critica vorrebbe riapparire in altri celebri quadri di Raffaello, dalla Velata al Trionfo di Galatea fino alla Madonna Sistina. A lei, che da secoli tenta di nascondere senza troppa convinzione le sue nudità, anche la letteratura e il teatro si sono ispirati, a tal riguardo pubblichiamo alcuni dipinti ispirati al loro amore idealizzato.