Il mese scorso è terminato il campionato di calcio professionistico di serie A della FIGC. Ancora un campionato che ha visto primeggiare i colori bianconeri. Ma chi scrive sin da ragazzino è destinato a soffrire, essendo legato per nascita a Napoli e per scelta sportiva al Napoli, anche se ha abbandonato la sua città natia a soli venti anni e per lo sport non ha mai dimostrato grande interesse per il calcio, preferendo discipline “minori” quali la pallacanestro, la scherma e il ciclismo, in particolare su pista. Ma poi si diventa nonni e i nipotini ti educano a guardare diversamente il mondo del calcio.
Per amore dei nipotini si diventa persino capo ufficio stampa e dirigente ufficiale dell’ASD Polisportiva Scauri dove entrambi militano e si frequenta un corso con esame finale per acquisire il patentino di allenatore della FIGC per scuola calcio (primi calci, pulcini ed esordienti). Due nipotini, educati juventini in tal senso dai genitori, e chi scrive che, per amore di nonno, regala loro bandiere, sciarpe ed accessori. E ancora li porta a Torino a visitare il museo bianconero e a vedere allo stadio la loro Juventus in una partita di campionato, puntualmente vinta. Non avrei mai pensato di stare in uno stadio “circondato” da ottantamila tifosi juventini. Ma sin dalla loro nascita ho avuto rispetto della loro scelta e i nipotini Koen Samuel e Jonas Noam lo hanno apprezzato.
Ricordo quando il 3 giugno 2017 la Juventus fu sconfitta in occasione della finale della Coppa dei Campioni per 4 a 1 dal Real Madrid e i tifosi napoletani già in vacanza a Scauri spararono i fuochi d’artificio in totale disprezzo di un’altra squadra italiana. Meglio lo straniero che l’odiata Juventus. D’altronde i partenopei ricordano che nella storia sono stati più tempo con Madrid capitale anche del loro regno che nell’Italia unita. Koen, lasciato il locale dove aveva assistito alla partita, pianse a dirotto in Piazza Giovanni Paolo II e rifiutava la mia solidarietà di nonno, colpevole soltanto di amare i colori azzurri. Le sue lacrime mi hanno indotto ancora di più a rispettare la “sua” squadra. Ricordo, ero undicenne come lui, quando il Napoli il 6 dicembre 1959 inaugurò lo Stadio San Paolo, progettato da Carlo Cocchia e Luigi Corradi, il terzo per capienza in Italia, dopo il Meazza di Milano e l’Olimpico di Roma. Battezzato come stadio del Sole, cambiò successivamente denominazione per celebrare la tradizione secondo la quale San Paolo di Tarso avrebbe raggiunto l’Italia attraccando nella zona dell’attuale Fuorigrotta. La struttura venne inaugurata con la gara di campionato fra Napoli e Juventus, terminata 2 – 1 per gli azzurri; un mese più tardi, il 6 gennaio 1960, ospitò la gara di coppa internazionale tra Italia e Svizzera, conclusa 3 – 0 per gli italiani. La vita è beffarda, fui così felice a 11 anni per questa vittoria, i napoletani sono molto superstiziosi e guai se il Napoli avesse perso la partita inaugurale e, soprattutto, contro i bianconeri.
Agli ordini dell’arbitro Jonni di Macerata il Napoli, allenato da Mister Annibale Frossi (passato alla storia come unico giocatore a suo tempo a scendere in campo con gli occhiali, legati da un elastico intorno alla nuca, a causa di una forte miopia), con campioni come Vinicio e Pesaola affrontò la Juventus allenata da Carlo Parola con campioni di spicco quali Charles, Sivori e Boniperti. La Juventus quell’anno vinse il suo quattordicesimo scudetto e il Napoli si classificherà solo al tredicesimo posto ma quel giorno i loro giocatori furono dei leoni. Durante la partita il sole accecava la vista, dopo che nei giorni precedenti aveva sempre piovuto. Vitali di testa batté il portiere bianconero Vavassori al 6° del primo tempo. Il raddoppio partenopeo arrivò nella ripresa, al 63° con un goal di Vinicio, soprannominato O lione, infortunatosi intorno al 20° minuto di gioco del primo tempo a causa di un violento scontro di gioco con Cervato, ma rimasto stoicamente in campo. I bianconeri segneranno solo all’89° minuto di gioco il goal della bandiera con Cervato su calcio di rigore concesso per un presunto fallo di Pesaola su Stacchini. Mai avrei pensato che mezzo secolo dopo sarei entrato nello stesso stadio con i miei adorati nipotini. Nella mia vita l’ho praticato poco. Ricordo ragazzo un derby Napoli – Roma dove entrai in sala stampa nel secondo tempo insieme a mio zio Mario Carlucci.
Vedemmo passare alla guida di uno spider colore rosso fiammante Renato Rascel e i tifosi napoletani sportivamente applaudirono l’artista al sua passaggio a passo d’uomo tra la folla che si accalcava nello spazio circostante. Ricordo un Napoli – Spal perso in casa per 0 a 2. Poi una partita del Sorrento di Achille Lauro che militava in serie B, non sostenuto dalla tifoseria napoletana perché si erano permessi i giocatori sorrentini di battere in Napoli in Coppa Italia per 1 a 0. E infine un Napoli – Lecce vinta per 2 a 0 in serie C vista in tribuna stampa insieme a mio figlio Giuliano Flavio, con i Vigili del Fuoco che portarono un enorme vassoio di babà che offrirono a tutti noi giornalisti presenti. Questo è il mio passato nei “rapporti” con il San Paolo…sino ad oggi. I miei nipotini ora divenuti pressoché dodicenne e undicenne hanno ricambiato la cortesia costante del nonno azzurro rendendosi disponibili a vedere nello Stadio San Paolo l’ultima partita che il Napoli ha giocato in casa, contro l’Inter di Mister Luciano Spalletti. Acquistati i biglietti per distinti superiori la nostra comitiva (tre adulti e cinque ragazzini) si è immersa nello stadio.
Quando ho varcato l’ingresso e sono giunto sugli spalti ho provato un’emozione fortissima dinanzi a quell’infinita distesa di verde. Anziano (non so se mai ritornerò al San Paolo) sono stato consapevole che in quel momento stavo gustando l’amore di un popolo. Lo stadio di Napoli è sentimento, passione, magia, folklore; una delle espressioni più colorate, intense e sincere della napoletanità. Mi è ritornata alla mente una dichiarazione del giocatore bianconero Yaya Tourè che ebbe a dire a suo tempo: “La mattina andammo a fare riscaldamento al San Paolo, Carlos (Tevez) mi parlava di questo stadio, ma io che ho giocato nel Barça mi dicevo, che sarà mai! Eppure quando misi piede su quel campo sentii un qualcosa di magico, di diverso. La sera quando ci fu l’inno della Champions, vedendo ottantamila persone fischiarci mi resi conto in che guaio ci eravamo messi! Qualche partita importante nella mia carriera l’ho giocata, ma quando sentii quell’urlo fu la prima volta che mi tremarono le gambe! Bene, fu lì che mi resi conto che questa non è solo una squadra per loro, questo è un amore viscerale, come quello che c’è tra una madre e un figlio! Fu l’unica volta che dopo aver perso rimasi in campo per godermi lo spettacolo!” La regia di Sky ha ripreso in primo piano i nostri cinque ragazzini Koen, Jonas, Dylan, Sofia e Vittorio e anche questa è stata un’emozione per loro. Un punteggio tutto azzurro: 4 a 1, il gol della bandiera a fine partita su rigore.
Avevo paura che potessimo perdere, sarei stato beffeggiato dai nipotini a lungo. Nel concludere vorrei accennare all’accoglienza del popolo napoletano. In tanti a vendere accessori sportivi. Sciarpe solo a un euro. Eppure dinanzi ai nostri ragazzi ho registrato una delicatezza particolare dagli stessi ambulanti. Spontaneamente consigliavano dove camminare per evitare la circolazione veicolare e per giungere il più velocemente possibile agli ingressi. E giunti allo stadio altri sportivi ci hanno fermati invitandoci a guardare alle nostre spalle dove stava transitando il pullman turistico del Napoli Calcio con i giocatori. E scattò una selva di applausi e di foto. Nei volti del popolo napoletano, intorno allo stadio, quegli sguardi e quelle fisionomie resi immortali da Eduardo De Filippo. Miseria e nobiltà, ma entrambe con grande dignità. E intorno allo stadio una selva di locali che propongono pizze napoletane e rosticcerie, con quegli odori che solo Napoli sa offrire ai suoi visitatori, offrendo la stessa qualità gastronomica in periferia e nel centro cittadino. Andando via penso a quanto ho perso nella mia vita, poi giungo al ponte sul fiume Garigliano e nel superarlo mi sento a casa, a Scauri.