Il dinamico parroco don Antonio Cairo offre alla parrocchia di Santa Albina V.M. in Scauri la festa della dedicazione della Basilica Cattedrale di Gaeta a ricordo di quanto avvenuto a Gaeta il 22 gennaio 1106. Spiega il parroco: “nel novecento quattordicesimo anniversario della deposizione del corpo di Santa Albina vergine e martire nell’altare maggiore della Basilica Cattedrale durante la liturgia presieduta da Papa Pasquale II dove ancora è custodita e venerata come compatrona dell’Arcidiocesi”. Mercoledì 22 gennaio prossimo alle 18.00 celebrazione dei vespri. L’Arcivescovo Emerito S.E. Mons. Fabio Bernardo D’Onorio e il sindaco del Comune di Minturno dott. Gerardo Stefanelli aprono il sepulchrum per l’ostensione e la venerazione del cranio di Santa Albina. Alle 18.30 Solenne Eucarestia presieduta dall’Arcivescovo Emerito e a conclusione affidamento della città di Minturno alla compatrona. Chi era Papa Pasquale II? Nacque come Raniero di Bleda (o Galeata) nella terra dell’Esarcato, attuale Romagna, tra il 1053 e il 1055 da Crescenzio e Alfazia. Fu eletto Papa il 13 agosto 1099 e come al solito non furono rispettati tutti i criteri dell’elezione canonica visto che erano assenti alcuni cardinali; tutto si svolse nella basilica di San Clemente, centro di controllo del cardinale Raniero, perché la situazione di Roma rendeva impossibile praticare il Laterano o San Pietro. Il che non impedì di procedere regolarmente alla sua consacrazione, incoronazione e intronizzazione: anzi è il primo papa di cui sia ricordato il rituale. Pochi anni prima le collezioni canoniche del cardinale Deusdedit e di Anselmo da Lucca avevano accolto e rimesso in piena luce il Hlodowicianum, l’accordo raggiunto nell’817 da Pasquale I (817 – 824) con Ludovico il Pio, che garantiva la collaborazione fra l’autorità imperiale e il papa fatti salvi i diritti della Sede romana, la libera elezione papale e la sovranità pontificia; dunque la scelta di Raniero di impersonare il successore di quel papa indicava subito che egli intendeva esserne, nel suo tempo e nelle condizioni date, il continuatore. Ma si doveva prima conseguire il bene più prezioso, la pace. Le circostanze furono favorevoli: Clemente III, l’antipapa che Pasquale doveva conoscere abbastanza bene se non proprio da vicino, sia per la provenienza esarcale sia per la militanza romana, morì nel 1100; lasciava intorno a sé un inquietante profumo di santità, ma nessun successore, e Pasquale II intervenne subito con la damnatio memoriae.

 

Fabio Bernardo e Don Antonio Cairo

Era anche il primo papa che poteva regnare su Gerusalemme, conquistata dai crociati il 14 luglio 1099: l’ultimo pontefice romano che l’aveva vista cristiana era stato Onorio I (morto nel 638), quasi mezzo millennio prima. Pasquale poteva ben dirsi collocato dalle circostanze in un contesto oggettivamente apocalittico, di rivelazione e risistemazione del mondo! La risistemazione iniziava da Roma e dalle finanze papali, entrambe compromesse dagli scismi e da un quindicennio di mancato controllo dell’Urbe; si trattava di riprendere la signoria su Roma (sconfiggendo i nemici in città) e acquisire alleanze per il controllo della città e del suo territorio, a cominciare dalla prossima e potente Farfa, seguendo in questo una politica inaugurata proprio da Clemente III e che vide gli Ottaviani, rettori del Patrimonium beati Petri in Sabina, opposti all’abbazia in una serie di provvedimenti giudiziari negli anni di consolidamento del principato del pontefice, fra il 1103 e il 1105. E di raggiungere il controllo sul Patrimonium in generale. I suoi primi anni furono dedicati a questo, e il pontefice non esitò mai a ricorrere alle armi e a rischiare la rottura di equilibri, come avvenne nel 1105 con i Corsi, nel 1107 quando Pietro Colonna e Tolomeo dei conti di Tuscolo, suoi primi alleati, cui aveva affidato la città, lo tradirono per allearsi proprio con l’abate di Farfa: Pasquale II chiamò in soccorso i Normanni di Capua, riportò la sua pace, anzi la stabilì per una decina d’anni. La sua politica duttile ed energica raggiunse l’obiettivo; con lui per la prima volta dal 1084, quando Gregorio VII era stato costretto a fuggire per evitare le ire dei romani esasperati dal saccheggio e dalle distruzioni del Guiscardo, un papa riuscì a risiedere stabilmente a Roma e a esserne propriamente il princeps. Forse un elemento fondamentale, se non decisivo, fu costituito dalla politica di recupero edilizio e monumentale che deve aver contribuito a coagulare intorno a lui il consenso di artigiani e cittadini (e che continuò a costituire la base del consenso per almeno quattro decenni con i suoi successori, Callisto II, Onorio II, Anacleto II, Innocenzo II) per la quantità di lavoro procurata dai cantieri e la connessa economia marginale; tra gli altri, la riedificazione della chiesa dei Quattro Coronati, ridotta in macerie dai Normanni del Guiscardo. È un aspetto che va sottolineato proprio perché l’esperienza dell’ultimo papa che aveva risieduto stabilmente a Roma, Gregorio VII, diceva dell’importanza del consenso della plebe e della popolazione dell’Urbe, pronta a riconoscersi nel princeps se questi assicurava la normalità e la pace; il che forse diede un errato senso di sicurezza, Pasquale II ne fece esperienza tra la primavera e l’estate 1116.

 

Lo stemma

La saldezza del controllo che conseguì su Roma, ovviamente con compromessi e mediazioni (un sostegno costante fu quello delle famiglie dei Frangipane e dei Pierleoni), gli consentì di assentarsi per lunghi periodi: nell’Italia meridionale, che era alla ricerca di nuovi equilibri dopo la morte di Ruggero I di Sicilia (1101) e debolmente controllabile dall’isola per opera del consiglio di reggenza della contessa Adelaide; e soprattutto nell’Italia settentrionale e Oltralpe, alla ricerca della formula di compromesso (meglio: dei compromessi) che avrebbe consentito la chiusura delle ostilità con il Regno – Impero, il Regno di Francia, il Regno d’Inghilterra. Con quest’ultimo le trattative erano già avviate nel 1102, vale a dire a due anni dalla morte di Guglielmo I il Rosso e prima che il fratello minore Enrico I riuscisse a consolidare la propria successione approfittando dell’assenza dell’altro fratello, Roberto Cortacoscia, in crociata; ma fu solo quando Enrico riuscì a venire a capo anche di Roberto, nel 1106, che la questione delle investiture venne chiusa nel suo Regno. Il che avvenne attraverso un intervento papale ispirato all’applicazione del criterio della interpretatio già messo in pratica da Urbano II: il papa è abilitato a sospendere la legge in caso di emergenza (necessitas) e ad adottare provvedimenti innovativi anche se magari contraddittori con quelli dei suoi predecessori. In Inghilterra questa suprema capacità papale venne delegata ad Anselmo di Canterbury, che in quanto legato era la personificazione fisica del papa (come già avevano scritto Gregorio VII e Urbano II e aveva ripetuto Pasquale II ai crociati trionfatori in Gerusalemme) e poteva decidere come e quando sospendere l’applicazione ai prelati inglesi delle condanne riservate a chi si era reso colpevole di aver accettato l’investitura regia o aveva reso l’omaggio al re; Anselmo era il papa nel Regno d’Inghilterra, poteva dunque farlo; ma  contemporaneamente qualunque sua decisione sarebbe stata valida unicamente per quel Regno, che così avrebbe recuperato la pace, e nessuno fuori dall’Inghilterra avrebbe potuto invocare un suo qualche carattere generale. Il principio della condanna dell’investitura restava saldo, ma soggetto alle incertezze della negoziazione continua che avrebbe obbedito ai principi di opportunità; forse per questo, per i margini tanto ampi che venivano accordati al legato papale, l’oligarchia del Regno si prese un anno per ratificare l’accordo; forse per questo nel 1116 esso fu posto nuovamente in discussione e, di nuovo, Pasquale rinviò tutto ad Anselmo: Pasquale II non tornò mai indietro da una pace conseguita, a qualunque prezzo fosse stata conseguita.

 

Papa Pasquale II consegna le insegne imperiali a Enrico V

Il 22 gennaio 1106 Papa Pasquale II è a Gaeta dove provvede alla dedicazione della Basilica Cattedrale di Gaeta. In tale occasione il Santo Padre pone il corpo di Santa Albina V.M. al di sotto dell’altare maggiore dove ancora riposa. Dal 15 al 22 ottobre 1106 si tenne un grande concilio a Guastalla, un’area contesa fra Matilde di Canossa e la Chiesa episcopale di Reggio; c’era un nuovo re in Germania, Enrico V, che aveva detronizzato suo padre, morto da poco. Convenne su Guastalla un numero imprecisato, ma imponente di vescovi, arcivescovi, abati, eminenze aristocratiche, i loro seguiti armati, servi, cavalli, bestie da traino e da soma, e non mancarono neppure rappresentanze delle città; era il primo incontro dopo il concilio di Piacenza del 1095 (e difatti era a Piacenza che avrebbe dovuto svolgersi: fu dirottato su Guastalla all’ultimo momento), di cui vennero sostanzialmente ripetute le decisioni, ma con termini assai più ampi e soprattutto senza mai utilizzare la parola investitura; la strada per la pace poteva dirsi aperta. Pasquale passò in Francia. Lì chiuse la questione delle investiture, non sappiamo come: forse negoziando con il re Filippo la questione della successione del figlio Luigi VI e concedendo la liquidazione del suo matrimonio in cambio dell’impegno regio a non attribuire più, almeno formalmente, l’investitura e a sostenere la Chiesa di Roma contro «i tiranni e i nemici».

 

La chiesa di Santa Albina

Il 22 maggio 1107 a Châlons-sur-Marne, alla presenza di ecclesiastici convenuti dall’intera Francia, dall’Italia, dall’Inghilterra, avvenne l’incontro con la delegazione di Enrico V, guidata da Bruno di Treviri: evento lungamente preparato che avrebbe potuto e forse dovuto formalizzare in grande solennità un accordo, ma si risolse in un semplice contatto preliminare in cui le due parti ribadirono cortesemente e risolutamente le proprie posizioni. Il giorno successivo un concilio ribadì la condanna delle investiture e degli investiti; mancavano gli ecclesiastici tedeschi. Pasquale II era riuscito a cambiare la situazione: era evidente che il re di Germania era rimasto solo contro Roma, come era stato suo padre prima che Urbano II generalizzasse la questione; Roma, invece, non era affatto isolata come negli anni di Gregorio VII, ma aveva raccolto intorno a sé il consenso generale: la politica di Pasquale II aveva portato a compimento quella di Urbano II. Le trattative dovevano continuare. Nel 1110 parve che tutto fosse pronto. Enrico V scese verso Roma per stringere l’accordo con il papa ed essere incoronato imperatore; strada facendo riportò alla dovuta obbedienza al Regno varie città che stavano sperimentando le loro autonomie politiche (ma non Milano, troppo impegnativa per poter essere affrontata) e ottenne il servizio feudale di Matilde di Canossa: anche il re aveva urgenza di ristabilire la normalità. A Roma, il 4 febbraio 1111, una delegazione imperiale raggiunse un accordo.

 

Il 9 febbraio a Sutri si saldò l’intesa. Il re entrò a Roma nel pieno rispetto dei protocolli degli adventus regis e il 12 febbraio a San Pietro l’accordo venne pubblicamente letto e portato a conscenza. Si trattava di un accordo dettagliatissimo: per la prima volta si rendeva ufficiale un termine e uno strumento di invenzione recente, regalia, «diritti del re (pubblici)»; erano quei diritti che il re conferiva attraverso il gesto dell’investitura: se su un gesto la trattativa era impossibile, su un contenuto preciso finalmente si poteva negoziare, e difatti per la prima volta ne veniva redatto un elenco, e per la prima volta si affermava che erano di esclusiva pertinenza regia (sottolineatura che raddoppiava quindi il peso del termine stesso regalia); i vescovi avrebbero dovuto restituirli al re, che li avrebbe attribuiti di nuovo in forma delegata, ma intanto gli ecclesiastici si sarebbero mondati le mani e le coscienze dall’esercizio di quanto inevitabilmente dava origine a «rapine, sacrilegi, incendi, omicidi» e da allora in poi l’avrebbero fatto solo in quanto agenti del re. Ma i vescovi detenevano quei diritti in primo luogo in quanto vescovi, e da sempre perché sempre erano stati i veri signori delle città sin dall’età dell’affermazione del cristianesimo; il gesto dell’investitura stabiliva un rapporto di fedeltà personale tra vescovo e re, il re riconosceva che il vescovo esercitava quelle prerogative e il vescovo le poneva a disposizione di colui che riconosceva come suo re. Nel concordato di Sutri tutto sembrava chiaro, ma era evidente che il testo attribuiva al re dei margini di autonomia impensabili fino ad allora.

 

Non c’è da meravigliarsi, dunque, che l’accordo fosse stato sottoscritto dagli ecclesiastici più prossimi al re (una sorta di consiglio ristretto) mentre la globalità degli altri vescovi, compresi quelli di Modena, Reggio Emilia e Parma, chiese di ritirarsi a discutere con lui. Rientrarono a fine giornata, resero omaggio al papa, ma contestarono il testo dell’accordo. Tumulti e scontri in chiesa e nella città per tutta la notte, papa e cardinali restarono nelle mani del re; Arduino da Palude, vassallo di Matilde di Canossa, combatté per il re e per il vescovo di Reggio. Entrò in scena un altro attore, che abbiamo già incontrato: l’abbazia di Farfa. Per tre mesi il papa fu trattenuto o ospitato in Sabina nei castelli di proprietà farfense. Finalmente un nuovo accordo, il 12 aprile a Sette Fratte, alle porte di Roma; che fu promulgato nel giorno dell’incoronazione imperiale (Roma, 13 aprile 1111), e che è più comunemente (per quanto erroneamente) conosciuto con il nome di privilegio di Ponte Mammolo. Apparentemente concedeva all’imperatore il diritto d’investitura ed era quindi il contrario di quanto la Chiesa romana aveva sostenuto fino ad allora: «[stabiliamo] che tu ai vescovi e agli abati, liberamente eletti senza violenza e simonia, conferisca l’investitura della verga e dell’anello. Dopo l’investitura, poi, ricevano la consacrazione canonica dal vescovo sotto la cui giurisdizione ricadono. Se qualcuno fosse stato eletto dal clero e dal popolo all’infuori del tuo assenso, se non verrà investito da te non sia consacrato da nessuno (tranne tuttavia coloro che per consuetudine sono nella disposizione degli arcivescovi o del pontefice romano).

 

Gli arcivescovi e i vescovi abbiano senza possibilità di dubbio la libertà di consacrare canonicamente i vescovi e gli abati da te investiti. I vostri predecessori infatti hanno tanto accresciuto le chiese del loro regno con i loro beneficii regali che il regno va munito massimamente con i presidii di vescovi e abati, e che i contrasti popolari, che nelle elezioni spesso avvengono, sia opportuno vengano repressi dalla maestà regale». Rispetto a febbraio non c’era molto di nuovo: i beneficii regali erano l’esatto equivalente dei regalia, ma in questa versione i re erano a tutelare le chiese, ovviamente in una relazione di reciprocità, e comunque non c’era la minima minaccia allo status quo. La pratica non avrebbe toccato uomini già consacrati (quindi il re non era riconosciuto come persona sacra in grado di agire sugli uomini sacri) e tutto sarebbe dovuto avvenire in un quadro di consenso con le competenti autorità ecclesiastiche; per non dire dei casi in cui sarebbe entrato in ballo il pontefice di Roma. Ma qualcosa restava nell’ambiguità, perché se il simbolo della verga poteva essere interpretato come scettro oppure come pastorale, l’anello era invece generalmente inteso come il simbolo del matrimonio mistico fra il vescovo e la sua Chiesa: dunque perché avrebbe dovuto conferirlo il re? E, soprattutto, compariva il termine investitura. Ma se il re, o meglio la sua Chiesa, otteneva questo, la Chiesa romana otteneva, a sua volta, oltre alla possibilità di un diritto di veto in certi casi, una cosa molto importante: il riconoscimento della sua sovranità su quanto il Patrimonio di San Pietro rivendicava almeno a partire da Ottone I, se non da Carlo Magno; e durante il viaggio di ritorno il nuovo imperatore attraversò le città e le terre rivendicate da san Pietro e le attribuì di volta in volta a Roma. Insomma, sembrava ripristinato il pieno consenso fra Regnum e Sacerdotium.

 

Eppure il papa era stato trattenuto (prigioniero oppure ospite, ma comunque obbligato a negoziare sotto custodia e fuori dal suo) contro la sua volontà, questo era innegabile. E innegabilmente aveva sottoscritto un’eresia. Il privilegio (privilegium) fu subito bollato come pravilegio (pravilegium). Che ne era stato e ne sarebbe stato della sua autorità? Molte voci si levarono contro Pasquale II, tra le altre quella del nuovo e giovane abate dell’abbazia, da tempo polemica, di Cluny, di cui era stato il padrino. Ma anche Bruno di Segni, che già si era opposto a Gregorio VII nel 1082 e ora era abate di Montecassino, Giovanni di Tuscolo e Leone d’Ostia. In Francia protestò con veemenza Goffredo di Vendôme. Tutti gli altri cardinali restarono al fianco del papa. Pasquale non solo accusò di emulazione Giovanni e Leone, non soltanto reagì per le spicce (minacciò Montecassino di disgregazione istituzionale, il che suscitò un violento scisma monastico: Bruno non riuscì a resistere e rassegnò le dimissioni; anche Cluny fu ridotta al silenzio con la malcelata minaccia di sospensione dei privilegi romani che la tutelavano dai vescovi), ma costruì una linea di difesa e restò fermissimo su di essa: non avrebbe voluto tuttavia rilasciare proprio quel privilegio, ma si era trovato di fronte alla minaccia di un generale massacro dei romani, e per questo ricatto il suo animo paterno aveva ceduto: era stato costretto.

 

La parola del papa non ingannava nessuno: la costrizione era una delle modalità dell’emergenza, e l’emergenza era il quadro all’interno del quale si poteva legittimamente sospendere la legge; e il papa, come avevano istituito la prassi e la dottrina nell’ultimo mezzo secolo, era il titolare unico e insindacabile di questa prerogativa. Quante volte essa non era stata esercitata da Urbano II? era il Primato. Il Primato consentiva al papa regnante di modificare tanto le proprie decisioni quanto le risoluzioni dei suoi predecessori: era una delle più grandi innovazioni dell’ultimo quarto dell’XI secolo e, sia pure fra molte discussioni, aveva coagulato intorno a sé un generale consenso. E consenso c’era circa il fatto che chi avesse accusato di eresia il romano pontefice si sarebbe posto da sé fuori dall’ortodossia divenendo automaticamente un eretico. Lo sapevano tutti: Goffredo di Vendôme, chiamato a giustificarsi dal legato papale Geraldo d’Angoulême, dichiarò disperatamente il falso: che mai aveva né avrebbe osato pronunciarsi contro il papa; quanto a Leone d’Ostia, era stato proprio lui a portare a Bruno, a Montecassino, le disposizioni papali. Silenzi, ritrattazioni verbali, ritrattazioni fattuali. Anche Pasquale II fu invitato ripetutamente a ritrattare (solo lui avrebbe potuto annullare una decisione da lui stesso assunta): ma non lo fece. Fu indetto un concilio, si tenne al Laterano nel 1112. Se qualcuno aveva pensato che sarebbe stata l’occasione per giudicare il papa si trovò di fronte all’impossibilità di farlo e dovette invece prendere atto del percorso penitenziale che Pasquale II mise in scena: penitente di fronte a Dio e ai confratelli, e sottratto al giudizio degli uomini, sia pure sacri. Si dovette insomma prendere atto del fatto che il papa aveva convocato il concilio non tanto per ottenere la pacificazione da parte della Chiesa, ma piuttosto per imporla alla Chiesa: e senza che fosse possibile impedirlo; Guido, arcivescovo di Vienne, protestò, ma alla fine non poté che tacere. Il pravilegium non venne mai ritrattato, l’imperatore non fu mai scomunicato.

 

Nel 1116 nuovo concilio lateranense, e stavolta si trattava di riprendere i colloqui con l’Impero e sistemare la questione dell’eredità matildina (Matilde di Canossa era morta nel 1115 lasciando una situazione ambigua in cui tanto la Chiesa di Roma quanto il Regno potevano rivendicare diritti esclusivi). Negoziatore e mediatore, Ponzio abate di Cluny. Ma durante il concilio si levò di nuovo Bruno di Segni, e stavolta accusò platealmente il papa di aver sottoscritto un’eresia. La reazione del papa fu durissima: «questa Chiesa non ha mai avuto eresie, anzi qui tutte le eresie sono state combattute e distrutte!»; alla voce del papa si unì quella di Giovanni di Gaeta, cancelliere papale (il futuro Gelasio II). Negli anni precedenti Pasquale aveva quasi interamente rinnovato il Consiglio dei cardinali, Bruno era totalmente isolato; era evidente che il suo era stato un tentativo disperato, l’estrema testimonianza di un rigore personale; tacque per sempre. Era finita, la Chiesa si poteva considerare del tutto pacificata, il consenso era stato ripristinato, con l’Impero la trattativa era stata riaperta, si poteva ricominciare. Ma a due settimane dalla conclusione del concilio, il 30 marzo 1116, una ribellione ben preparata, ma che colse Pasquale di sorpresa, lo costrinse a lasciare Roma; c’era di nuovo la mano di Tolomeo di Tuscolo. Il papa «a Tolomeo diede Ariccia, ad altri oro, argento e altro corredo in abbondanza», ma stavolta non riuscì a riprendere l’Urbe; furono i Pierleoni, suoi principali alleati e alleati storici del papato riformatore, che si assunsero l’onere di fronteggiare in città i suoi nemici. All’inizio del 1117 Enrico V ritornò in Italia in soccorso del papa (ma finì per allearsi realisticamente con il conte di Tuscolo, che controllava Roma); Giovanni di Gaeta, braccio destro di Pasquale II, gli mandò incontro Maurizio, arcivescovo di Braga, grande perdente nelle competizioni per l’egemonia nella penisola iberica; nell’estate anche Enrico V lasciò Roma e il suo clima malarico mentre il papa si chiudeva ad Anagni in preda a una dissenteria devastante che gli impediva di alzarsi da solo dal letto. Lì lo raggiunsero gli ambasciatori del conte Ruggero II di Sicilia, e da lì Pasquale dettò alcuni dei documenti più significativi del suo pontificato (al punto da essere trascritti alla fine del secolo da Albino, cardinale di Albano e pauper scholarus: Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, cod. Ott. lat. 3057); la sua fine poteva essere imminente. Invece si riprese e trovò il modo di finanziare la controffensiva.

 

Nella prima metà di gennaio del 1118 Pasquale II piombò a Roma in forze e senza nessuna intenzione di concedere la pace ai suoi nemici che atterriti implorarono invano il suo perdono: ma il 21 gennaio 1118 morì mentre stava facendo preparare le macchine da guerra per la battaglia finale. Il suo sepolcro era già pronto a S. Giovanni al Laterano: la basilica del vescovo di Roma fondata da Costantino, dove giaceva Silvestro II, il papa del ‘nuovo Costantino’ Ottone III. Il suo pontificato fu tutto speso nella ricerca della pace sotto il segno dei principati e del Primato, in tutti i modi possibili, e soprattutto mettendo a frutto le novità del pensiero ecclesiologico. Pasquale II non verrà dimenticato nel XII secolo: da lui non si ritornerà mai indietro.