Alcuni anni fa l’amministrazione civica di Itri si dotò de “Lo Statuto di Itri”, un prezioso documento di diritto comunale, per la gioia degli studiosi e dei cultori di patrie memorie, che potranno consultarlo per riscoprire la vita civile ed economica della cittadina di quei tempi.
“Lo Statuto di Itri”, manoscritto che si conserva nella Biblioteca del Senato della Repubblica, a Roma (ivi si nasconde un patrimonio quasi inesauribile di “statuta” e “decreta”, di “legia ac iura”), è una delle memorie giuridiche più antiche della nostra provincia, la cui formazione e compilazione risale al Trecento, riscritto nell’anno 1534, dall’originale, dal notaio Nicolantonio de Bellis.
Questo documento, oltre che per la sua rilevanza storica e filologica, è interessante per gli ordini municipali cui fa riferimento. Esso rappresenta una testimonianza di vita sociale, che, pur sottomessa al “Dominus”, esercitava il voto democratico, con il quale eleggeva, in pubbliche assemblee, i propri rappresentanti.
Lo statuto itrano, come tutti gli altri statuti, prodotto genuino e notevolissimo della sua vita municipale, emanò, fin dalla sua origine, dalla “università” raccolta in parlamento e non fu una concessione dell’autorità regia o feudale, benché si trovi confermato dal feudatario. Esso, nella sua più alta espressione, è una legalizzazione di diritti civici.
Lo statuto di Itri (218 capitoli, la maggior parte in latino corrotto ed altri in volgare) fu compilato, come già accennato, nel XIV secolo, sotto i conti Caetani : Giacomo, Cristoforo e, soprattutto, Onorato, detto d’Aragona. Il comune di Itri rifece il suo statuto, di 121 articoli, nel 1856, conservando le disposizioni di quello antico. Il documento grafico riveste un’importanza speciale, perché accenna ad antichi usi (quello del basatico nei patti nuziali, a causa del primo bacio, “primi osculi”, ricevuto “a sponsa vel uxore”, è traccia di istituzione longobarda, che arieggia il “morgengabe”, il dono mattutino, una corrispondenza, per dirla con il poeta, di amorosi sensi) e a costumanze itrane, oggi scomparse, a famiglie ancora superstiti nel nostro comune, e contiene molte prescrizioni municipali, in massima parte economiche.
Il manoscritto, che abbiamo consultato e microfilmato alla biblioteca del Senato, alla quale fu donato dal senatore fondano Enrico Amante, è roso e screpolato dal tempo, per cui è di difficile interpretazione. Tuttavia ci siamo sobbarcati a questo duro lavoro per non far disperdere una così preziosa testimonianza della civiltà degli antichi comuni italiani, che inizia con un’invocazione diretta a Dio, alla Vergine, ai santi protettori e che coinvolge tutta la corte celeste. Seguono i nomi delle persone preposte alla formulazione e stesura del complesso di norme.
Il cartaceo, in cui si riscontrano molte cose utili per la storia e per la toponomastica itrana, si legge con lo stesso interesse che si dedica ad un romanzo di vita vissuta. Da esso si evince che i feudatari, all’epoca dello statuto, non abitavano più nel castello comitale, ma nel convento di S. Francesco; che i parlamenti si tenevano nella chiesa ricettizia dell’Annunziata, in cui si radunavano il Consiglio e Sopraconsiglio degli uomini del comune, al suono della campana, con l’assenso ed il beneplacito di Cristoforo Caetani, logoteta e protonotario del regno di Sicilia e conte di Fondi. I cittadini erano avvezzi ad essere richiamati dalle campane “ad destensum”, non solo alla chiese e ai doveri religiosi, ma anche ai loro obblighi civili, sia che dovessero accorrere all’Arengo per discutere intorno alla cosa pubblica, o prepararsi alla difesa contro esterni invasori, o prestar man forte per arrestare i progressi di qualche incendio, rapidamente divampante tra le case dai tetti di paglia.
E’ utile far rilevare che, nello statuto itrano, il più antico di Terra di Lavoro, la cui ortografia è quella consueta dei documenti medioevali, con alcuni errori di scritturazione, i feudatari spesso nobilmente promuovevano e sottoscrivevano gli atti a beneficio del popolo. La materia dello statuto è variamente disposta. Alcuni capitoli trattano dei danni ai campi, fatti dalle persone e dagli animali (vacche, giumenti,capre e pecore). Siffatte disposizioni, che hanno carattere di polizia agraria, si alternano ad altre che mirano a disciplinare l’annona e la gabella. Vari capitoli riguardano gli oliveti e le vigne, due pilastri dell’economia agricola itrana; e mentre non si accenna ai frantoi, il capitolo 64 è dedicato al corredo del palmento, il luogo dove sta il torchio per pressare le vinacce e il tino per ricevere il vino novello. Per la vendita in genere dei commestibili, il prezzo o “assisa” è imposto dagli “accatta pani” (vigili annonari) e si prescrivono i pesi come quelli gaetani.
Identicamente a Gaeta, compaiono, in due capitoli dello statuto itrano, le gravi pene della frusta e della vergogna date a coloro che si dedicano ai giochi illeciti o che cavano “piantoni” da fondi altrui senza espressa licenza. Non era consentito tagliare alberi coltivati e olivi, se non per innestare. Si deve tener conto che l’economia del luogo era allora basata soprattutto sull’olivicoltura, tenuta in grande considerazione. Il quartuccio dell’olio era l’imposta che dava il maggiore reddito all’Universitas di Itri. Si prelevava direttamente al frantoio.
Occorre dire che lo statuto itrano, che ci fornisce uno “spaccato” della società itrana del tempo, non è imposto dai signori alla comunità, ma sorge, per così dire, per germinazione spontanea, tramite l’opera di uomini appositamente eletti dalla comunità, anche se essi trovano la sanzione ufficiale solo nella “confirmatio” del feudatario o dei feudatari.
Tra le varie disposizioni, atte a tutelare la sanità pubblica, colpisce il divieto di gettare dalle finestre immondizia e ed altro sulle strade. L’istanza dell’Università a Vespasiano Colonna fu ammessa con placet, da Traetto, in data 11 settembre 1523.
Ciò dimostra che la popolazione ci teneva all’igiene e alla decenza del vivere civile.