Non vi è paese che non abbia un elemento architettonico che lo caratterizzi, che subito lo richiami alla mente. Itri ha come simbolo il maestoso castello medioevale, una delle più tipiche e vigorose costruzioni difensive dell’intero Lazio, che colpisce maggiormente la fantasia per la sua tempestosa storia, fatta di sanguinosi assedi, di feroci assalti, di orrende stragi, di movimentate e sinistre vicende guerresche, di straordinarie avventure.
Il mastodontico, imponente complesso architettonico, che sembra far corpo con la roccia, si drizza superbamente sulla collina di S. Angelo, proteso sulla sottostante via Appia e sulla parte nuova della cittadina come un nume protettivo.
La roccaforte consta di un “maschio”, nella parte più elevata, il quale si sviluppa in altezza per ben 35 metri, di due torrioni principali e di altre quattro torricelle secondarie, tre rotonde ed una semicircolare, munite di merli a piombo. Il torrione di forma poligonale, che fu edificato, in posizione di cruciale importanza, sull’impianto di un precedente “castrum” longobardo, ha una bella cinta merlata in aggtto, una parte della quale fu distrutta nell’ultima guerra mondiale, dai bombardamenti anglo-americani. In basso, c’è una grossa torre circolare, alla quale si scende per mezzo di un camminamento di ronda, che lo unisce al corpo centrale. Il torrione cilindrico, che ha la sua massiccia base sulla via consolare, inserito in una “scarpa” di più vasto diametro, è impressionante per lw mole e per l’altezza dell’interno. La tradizione locale la chiama “torre del coccodrillo” perché, nella sua parte inferiore, c’era dell’acqua con un alligatore, a cui venivano dati in pasto i origionieri condannati a morte dai vicarii medioevali, che, all’Orto della Corte, amministravano giustizia ai loro dipendenti, comminando, alcune volte, pene terribili.
Intorno a questo profondo fosso sono fiorite innumerevoli leggende. Una di esse dice che nel castello vagano, coime anime in pena, numerosi fantasmi, il che dà alle sue rovine un qualcosa di tetro. La fortezza, però, oltre alle fosche leggende, alle oscure avventure, alle fughe romanzesche, alle uccisioni, ai supplizi, ci richiama alla mente anche pagine di storia con assedi, battaglie, terribili episodi di sangue, vendette, dovute ai suoi signori.
La torreggiante rocca, una sorta di maestà accigliata e severa, protagonista di cimenti che risentono dei tempi eroici, annunzia, ancora oggi, lo spirito armigero degli abitanti di una volta, anche se lo avesse taciuto la storia.
Il castello conta più di undici secoli di vita. Esso, infatti, è un monumento iniziato nelIX secolo. La necessità di duifendersi dalle continue scorribande dei Saraceni aveva obbligato i signori di Itri a costruirsi un luogo fortificato, che proteggesse il paese e le terre circostanti. La prima torre della roccaforte, poligonale, risale all’882. Essa fu eretta per volontà degli ipati di Gaeta,Docibile I e suo figlio Giovanni I, i quali fecero cingere fi mura altissime ed inespugnabili, munite di torrioni e di avamposti, l’intera altura, carica di suggestione, di S. Angelo. Per secoli, le mura del fortilizio furono considerate imprendibili, anche dai più famosi capitani ed uomini d’arme.
L’intendimento dei duchi gaetani era che la fortezza, che nel torrione poligonale presenta una cinta merlata, a coda di rondine, di tipo guelfo, beccatelli dalla struttura slanciata, ardite costolature. Alcune finestre a bifora, fornite di eleganti arcatelle, avesse il compito di stare a guardia delle loro terre, messe in pericolo dalle incursioni delle orde turchesche. Nel 950 il nipote di docibile, Marino I, a protezione della sua potenza, fece innalzare una seconda torre, il robusto,, quadrato mastio, dalla poderosa forza difensiva, che presenta un’alta e ben conservata muraglia rettilinea, isolata su entrambi i lati, con duplice muratura a filo,, a difesa del camminamento di ronda. Esso è a tre piani e funge da corpo avanzato, ad un livello molto superiore a quello su cui si erge la snella torre a pianta trapezoidale. La suddetta muratura, dipartendosi dal detto fabbricato, scende fino ad un torrione cilindrico,, a tre piani, con funzione di corpo avanzato. La sommità di questa torre presenta una merlatura a piombo con uno stretto camminamento, senza alcuna traccia di caditoie.
Nel complesso questa è la parte meglio conservata del castello, con la sua quasi integra e poderosa cortina,, rovinata soktanto un po’ in via Mamurra. Inoltre il complesso fortificato è composto da un ridotto o caposaldo difensivo,, con le già citate torri rotonde ed una torretta semicircolare, tutte dotate di merli.
Dapprima la rocca fece parte del ducato di Gaeta fino al 1073; poi fu annessa al contado di Fondi, sotto il dominio dei Dell’Aquila. Nel 1234 l’imperatore Federico II di Svevia (ricordato, per il suo mecenatismo, da Dante Alighieri nel canto XIII dell’ “Inferno”, inerente il cancelliere Pier delle Vigne, che aveva le chiavi del suo signore) largì il castello di Itri ai Caetani, come ricompensa per gli aiuti avuti dagli stessi in alcune guerre. Quasi nello stesso periodo fu costruita la torre cilindrica, che si innalza sopra un tronco di cono, coronato da una salda cortina. Essa, fabbricata con pietrame uniforme e con paramento in masselli di arenaria, disposti a filaretti, che si succedono con andamento costante, non ha fondamenta, poggiante direttamente sulla viva roccia della collina, che, in più punti, è affiorante, e congiunta agli altri due torrioni tramite un camminamento di ronda, lungo ben trenta metri, per la vigilanza attenta degli uomini prepost all’incombenza Nel medesimo secolo il mastio fu unito al torrione a base pentagonale, per mezzo di un corpo adibito ad abitazione del presidio e dei castellani.
Nel 1299 il pontefice Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, posto da Dante nell’ “Inferno” (XIX), che lo incolpò di simonìa, conferì il fortilizio, a titolo di feudo, al nipote Roffredo III Caetani, che l’ampliò. Nel 1338 era proprietario del feudo Nicolò I, suo figlio, che lo dece diventare una fortezza ancora più agguerrita. Otto anni dopo, il fiero conte di Fondi, in lotta con Giovanna I d’Angiò, ventenne regina di Napoli, considerata, a buon diritto, un’antesignana delle moderne femministe, usufruendo della posizione strategica della rocca, tese in via Mamurra un tranello alle soldatesche della sovrana, alle quali impartì una durissisa lezione, decimandole. Le truppe partenopee, guidate da Filippo de Anatolio, Fusco Guindazzo e Jacopo Faraone, caddero in gran numero lungo la gradinata della via. Fu una carneficina per l’esercito regio. I pochissimi superstiti furono graziati, ma, denudati, vennero rimandati a Napoli, con un cartello sulla spalle, su cui era scritto, in segno di scherno, “Ego sum robba, quam comes Fundi fecit de novo”, cioè che essi erano roba, che il conte di Fondi, Nicolò Caetani, aveva rimessa a nuovo. I gaetani presi prigionieri furono passati a fil di spada.
Quando, nel 1503, il gran capitano andaluso Gonzalo Fernandez y Aguilar de Cordoba sconfisse presso Itri, tra le forre di “Pagnano” e di “Calabretto”, i Francesi del conte Luigi di Nemours, il paese ed il castello passarono sotto il potere di Prospero Colonna, celebre capitano di ventura, in remunerazione dei servigi prestati agli Spagnoli, soprattutto per la vittoria del Garigliano.
Nell’agosto del 1534 l’intelligentissima e bellissima Giulia Gonzaga, contessa di Fondi, la più celebrata donna del Rinascimento, che ospitava nella vicina cittadina aurunca una magnifica corte di letterati e di artisti, fu costretta, secondo alcuni studiosi, a rifugiarsi nel vetusto castello di Itri, per sfuggire al corsaro Ariadeno (Khair-ad-Din) Barbarossa, che intendeva rapirla per farne dono al sultano Solimano II. Il predatore, ammiraglio della flotta ottomana, provò a conquistarlo, ma non riuscì a violare il formidabile arnese difensivo, venendo respinto dal valore r dalla tenacia degli itrani, che si difesero con baldanzoso vigore, obbligando le orde barbaresche a rinunciare all’attuazione del piano. Essi usarono, per difendere la venusta nobildonna, anche forconi e roncole. Nel 1592 la roccaforte fu quartiere generale di uno spaventoso gentiluomo-bandito, che si chiamava Marco Sciarra. Tutti i paraggi, da Itri fino a Sorrento, erano soggetti a questo sparviero dal volto umano e dovevano subire continue vessazioni e taglieggiamenti. Il grifagno masnadiero molisano, denominato “flagello di Dio”, concesse, però, al poeta Torquato Tasso di attraversare liberamente il suo territorio. Nel 1707 vi fu la presa della cittadella da parte degli Spagnoli, che poi furono cacciati da essa, grazie al coraggio e all’eroismo degli abitanti del luogo. Era proprietario del castello e del feudo di Itri il conte Paolo Enrico Mansfeld. Glieli aveva concessi, il 16 luglio 1690, il re di Spagna. Carlo II di Asburgo.
Si giunge alla fortezza per una stradicciola selciata, che è l’unica via d’accesso al nucleo medioevale, fiancheggiante vetuste case, le quali andrebbero custodite nella loro genuina struttura.
Attualmente la rocca è di proprietà del Comune di Itri. Il fortilizio, un gigante pietrificato, non ha perso, nonostante le ferite del tempo e degli uomini, l’aspetto guerresco del Medio Evo conservando, intatto, il suo fascino intenso, irresistibile, con tutto questo alitare di storia che gli si sente intorno.
Ancora oggi la fortezza, con le sue torri sbrecciate, slabbrate, risveglia l’ammirazione ed il rispetto per la sua linea marziale e nobilissima. Ancora oggi i visitatori, alla sua vista, sono attanagliati da misteriose sensazioni, carica com’è la cittadella di leggendari richiami alle epiche gesta degli armigwei. Le antiche pietre, che, di notte, alla luce dei lampi e delle folgori, si illuminano e palpitano, sembrano evocare tutti i fasti del passato facendo rivivere tutti i capitoli di storia che si sono svolti dentro queste mura. Nelle tetre serate invernali una coorte di spettri si aggira, inquieta, per i bastioni. Sono i fantasmi di Giovanna I, di Nicolò I Caetani, di Urbano VI, di Marco Sciarra, di Torquato Tasso, di Giulia Gonzaga Colonna, di Ippolito de’ Medici, di Ariadeno Barbarossa, di Paolo Burali d’Arezzo e di altri personaggi, le cui ombre,, vaganti come anime in pena, aleggiano lungo il caratteristico camminamento di ronda. Forse, a tener loro compagnia, cìè il bellicoso spirito di Michele Pezza,meglio conosciuto come “Fra’ Diavolo” , chee, in alcune serate buie e piovose, si drizza sugli spalti ferrigni, quasi a vigile scolta del castello, minaccioso, guatando verso l’Appia, in attesa della venuta dei Francesi, apprestandosi a sostenere contro di essi altri cruenti scontri, in una guerra “eterna”, implacabile.
Negli ultimi tempi, purtroppo, il vecchio maniero rischiava di perdere la monumentale possanza e di cadere.La roccaforte, alta, larga, spessa, nera, sgrugnata agli angoli e ai pinnacoli laterali, aveva l’aria di un Alcazar senza epopea, collocato a riposo. La costruzione mostrava, ben visibili, le ferite delle bombe e del tempo, soprattutto nella torre pentagonale. Quando ormai temevamo che il castello non potesse più sfuggire alle ingiurie del tempo e degli uomini, ecco un intervento a livello regionale, per ripristinare questo doocumento di vita, a cui tutti gli itrani si sentono indissolubilmente legati. Ora occorre che il castello medioevale sia un punto di riferimento preciso, continuo, non soltanto per i turisti, ma per tutti i cittadini.
E’ necessario creare nel fortilizio un museo delle tradizioni popolari. Si tratta di un progetto ambizioso, che, se realizzato, potrebbe offrire, oltre alla precisa matrice culturale, un incremento veramente sostanziale al turismo itrano, con delle implicazioni, sul piano economico, di rilievo. La cittadina ne trarrà grandi benefici e la stessa Amministrazione Comunale legherà il suo nome ad una realizzazione che non potrà che darle lustro.