Il sito archeologico di “San Cristoforo”, quasi inesplorato finora, si è rivelato ricco di sorprese. Qui doveva esserci un deposito votivo. In due ricognizioni dello scrivente, di Paolo Manzi e di Marisa De Spagnolis nell’area sacra si sono rinvenuti, sul terreno, parte di due ex voto, raffiguranti una testina di bue in terracotta, che ha la sola parte anteriore, con il retro concavo ed aperto, numerosi frammenti di ceramica a vernice nera, parte di una statua panneggiata, con la gamba destra flessa, un triobolo di Neapolis, datato 310-300 a. C., con l’immagine di Apollo incoronato di alloro, e una croce d’oro che presenta, su un lato, Cristo crocifisso e, sull’altra faccia, la Madonna di Loreto con in braccio il Bambinello. La Vergine Maria ha un ricchissimo abbigliamento. Vi compare la scritta “Lavros”. L’offerta di manufatti di animali aveva lo scopo di richiedere la protezione del dio, soprattutto per il bestiame di allevamento.
Questi ex voto fittili lasciano intuire che si tratta di un tempio o di un santuario che segna un antico percorso viario preromano, disposto a ridosso del sito archeologico; un diverticolo che collegava la collina di San Cristoforo con le distese di prati dei fondovalle.
A partire dal IV secolo a. C., si ha, nell’Italia centrale, una presenza di santuari, in cui i fedeli, per ottenere la protezione degli dei, offrivano doni votivi (statuette in terracotta o bronzee, i cosiddetti votivi anatomici, oggetti fittili, ceramiche, monete, ecc.).
Di solito i doni votivi erano posti in fosse speciali, scavate nelle adiacenze del santuario, in un ambiente sotterraneo. Probabilmente esso era un ampio vano con archi.
Ipotizziamo che questo centro poliade, certamente non troppo densamente abitato, sorto su un’altura naturalmente forte, con un terrazzamento di pietre megalitiche bugnate, lungo 62 metri, i cui realizzatori erano sostenuti da sentimenti sacri, tanto che alcuni vollero perfino abbinare sacrifici agli dei, al momento della costruzione di queste antiche mura, fosse consacrato all’Ercole italico, che ebbe un’ampia area di diffusione, in stretta relazione con le vie di transito della transumanza, che consentiva trasferimenti del bestiame, dai pascoli invernali di pianura a quello estivi.
L’origine del particolare culto rivolto dagli antichi Aurunci al grande eroe eponimo è da ricercarsi nelle eroiche tradizioni di quel popolo guerriero, fiero, dall’indole violenta ed aggressiva, dal carattere fisiologicamente forte, quali di montanari e di giganti (a Sessa Aurunca si rinvennero ossa umane di straordinaria grandezza).
Gli Aurunci, dall’indomito valore, avevano una formidabile struttura fisica ed un’espressione tale nel viso da renderne l’aspetto truce, spaventevole.
Gente bellicosa, secondo Dionisio di Alicarnasso, storiografo e retore greco, di Caria. Così si spiega il culto eracleo presso l’antico popolo aurunco, che ammirava il nume per la forza organica.
Protettore di viandanti, di pastori e di mercanti, che gli offrivano la decima di quello che avevano guadagnato, Ercole non era un eroe divinizzato, ma un dio, tan’è vero che lo si venerava all’interno del pomerio, dove anticamente non si potevano costruire templi in onore di divinità straniere. Egli era popolare in tutto il Lazio : aveva la funzione di proteggere il bestiame, il traffico del sale, il commercio e i commercianti ed anche le acque sorgive.
Il primo lettisternio (risalente al 399 a.C.), un convivio sacro, in cui si offrivano vivande alle immagini delle divinità adagiate su un letto e con il braccio sinistro appoggiato su un cuscino, fu celebrato per ordine dei Libri Sibillini. una raccolta di testi oracolari adoperati nella religione pubblica dell’antica Roma, attribuiti alla Sibilla Cumana, in onore di Apollo e Latona, Ercole e Diana, Nettuno e Mercurio. La posizione centrale, quella egemonica. è tenuta da Ercole e da Diana.
Il altri lettisternii successivi le divinità a convito sono sempre le stesse. Solo nel 217 a. C., dopo la battaglia del Trasimeno, dove i Romani,, guidati dal console Caio Flaminio, subirono una vera e propria disfatta, scompare Ercole e compaiono, accanto agli altri dei, Giove e Giunone, che avrebbero preso, da quel periodo, il sopravvento.
L’Ercole latino fu, con Diana, iln dio supremo del panthron arcaico. La leggenda del ladrone Caco adombrerebbe il prevalere del suo culto su quello di un oscuro (per noi) dio della zona.
Giovanni Camers (“De origine urbium italicarum”) e L. Wolfgang e S. LEontino (“De origine et magnis urbibus regni neapolitani”) identificarono in Fondi il luogo dell’uccisione del mitico gigante Caco da parte del figlio di Zeus. Ercole uccise l’enorme ed orribile pastore, il terrore della foresta dell’Aventino, che sputava fiamme da ciascuna delle sue tre bocche.
Questi rubò ad Ercole quattro tori e quattro manzi della mandria, che trascinò nella sua grotta tirandoli per la coda, affinché le orme non svelassero il sitp dove erano celati gli animali.
Il dio, rappresentato come un uomo membruto ed eccezionalmente muscoloso, sentito il muggito di uno dei manzi, ritrovò Caco, lo agguantò e gli maciullò il viso.
L’accoppiata del lettisternio, di Ercole e Diana, la ritroviamo ad Itri, perché. oltre al tempio di Ercole, a “San Cristoforo”, c’è una dedica attestante una “aedes Dianae” in località “Valle di Itri”, a quasi 2 km. dal centro urbano di Itri, posta nella muratura della gradinata di accesso ad una villetta di Enelio Stamegna.
Il piccolo cippo di calcare locale ha un’iscrizione latina, su 7 linee, con lettere capitali. Sui lati : a destra, un “urceus”, ovvero una brocca; a sinistra, una “patera”, una scodella. La datazione dell’epigrafe, di faticosissima interpretazione perché molto deteriorata, è certa, risalente al 166 d. C.. Essa si deduce dalla formula usata dal liberto Grafico e da suo figlio Asclepiaco, che ricostruirono il sacello di Diana, come ex voto, per il felice ritorno (un atto di ossequio), dalla Siria, dell’imperatore Lucio Vero, che, dopo la sua morte, venne divinizzato.
In ultima analisi, possiamo dire che il santuario o tempio di Ercole ad Itri ci fornirà nuovi elementi per lo studio della religione, della società e dell’economia degli Aurunci. Occorre, al più presto, riprendere gli scavi, perché il grande complesso murario non ha l’eguale nel Lazio per struttura e grandiosità. Le pietre sono squadrate, combacianti più o meno perfettamente, non saldate né da calce, né da altra sostanza. Nonostante questo, nonostante i terremoti che l’Italia centrale ha subìto e, purtroppo, subisce, per le sue origini vulcaniche (ad Itri, nei pressi della collinetta di Montuolo, ormai quasi spianata dalle ruspe, vi è Monte Bucefalo, un vulcano spento da secoli), queste muraglie ciclopiche, in molte parti, sono, ancora oggi, salde ed efficienti.