Il 20 settembre 1958, poco più di sessanta anni fa, entrava in vigore la legge 75 approvata sette mesi prima, il 20 febbraio 1958, e venivano soppresse le case chiuse. In tutti i bordelli di Italia i clienti irriducibili di ogni età e le signorine attesero il 19 la mezzanotte fraternizzando, bevendo spumante e amoreggiando, ma il tutto condito dall’amarezza che un mondo stava scomparendo per sempre nella penisola italiana. Le case chiuse erano sparse per tutto il territorio nazionale ed erano anche il luogo dove i giovani maggiorenni, a diciotto anni, si avvicinavano alla sessualità, sovente le “signorine” per loro riservavano particolare attenzione, orgogliose di essere state scelte per l’iniziazione. Tutto incominciò con il presidente del consiglio Camillo Benso Conte di Cavour che nel 1859 autorizzò l’apertura di case controllate dallo Stato per l’esercizio della prostituzione in Lombardia.
L’anno successivo il decreto diventò legge nell’intero regno. Nacquero le “case di tolleranza”, perché tollerate dallo Stato, di tre categorie: prima, seconda e terza. Furono fissate le tariffe, la necessità di una licenza per aprire una casa, le tasse da pagare e istituiti controlli medici sulle prostitute per contenere le malattie veneree. Con il Regolamento Cavour del 1860 inizialmente destinato alle guarnigioni militari e poi ad uso civile, i bordelli sono stati lo specchio di una società che voleva controllare e sorvegliare, con una certa isteria e senso di ordine spasmodico, i corpi femminili delle prostitute. Quest’ultime, ultime tra le ultime, erano però tollerate, temute in quanto appartenenti alle classi pericolose, ma necessarie al fabbisogno sessuale dell’uomo italiano, visto che impedivano che fosse danneggiata la buona società e le donne di famiglia in particolare.
Nel 1888, secondo la legge Francesco Crispi, all’interno delle case di tolleranza era vietato vendere cibo e bevande, fare feste, balli e canti. Non si potevano aprire case di tolleranza in prossimità di luoghi di culto, asili e scuole. Le persiane dovevano restare chiuse, da qui il nome “case chiuse”. Con il fascismo il clima festoso prese il sopravvento, anche se Benito Mussolini era contrario, ma si limitò a non farne aprire di nuove. Nei bordelli andavano uomini di tutti i tipi: gerarchi, ufficiali, militari di leva, anziani, ragazzini alle prime esperienze, mariti insoddisfatti del talamo nuziale e curiosi dal braccio corto, i cosiddetti flanellisti che bighellonavano per lustrarsi la vista, senza mai investire un soldo. “Su, su giovinotti… O commercio o libera la sala”, ripeteva spesso la maîtresse per tenere il ritmo dei guadagni. La consumazione non era obbligatoria, ma quasi. Il cliente, scelta la ragazza – di solito vestita in modo seducente da una sarta della casa chiusa – versava alla cassa il suo obolo e riceveva in cambio una marchetta che in camera consegnava alla fanciulla.
A fine serata il numero di oboli in suo possesso definiva anche il compenso della signorina. In questo clima di sesso a pagamento anche Gaeta aveva la sua casa chiusa, ubicata tra le stradine del quartiere Sant’Erasmo. Era l’unica del Golfo e la sua esistenza era legata alla significativa presenza di militari, sia della guarnigione del Regio Esercito che della base navale della Regia Marina. E continuerà a funzionare sino all’ultimo giorno consentito, anche nel dopoguerra repubblicano. Vi è una frase del gergo militare che recita “marinaio, una donna in ogni porto”. Ma questa affermazione non ha nulla di romantico, le donne che i marinai avevano in ogni porto dipendeva dalla frequentazione di case chiuse o di locali di dubbia moralità. Mi sono intrattenuto in un amarcord negli anni passati – per ragioni di ricerca storica – con personaggi anche illustri che hanno frequentato tale casino di Gaeta.
Si ricordavano che sopra ogni stanza vi era una targhetta con un numero che consentiva alla maitresse di dire se la signorina richiesta era o meno libera. Ormai gli ultimi superstiti di coloro che frequentarono la casa chiusa di Gaeta sono oggi – per motivi anagrafici e cronologici – almeno ottantenni. Entrata in vigore dopo dieci anni estenuanti fatti di rinvii e slittamenti, il testo di legge della senatrice socialista Angelina Merlin sposava la richiesta di modernità e cambiamento in termini di costume sessuale. Molti intellettuali e parlamentari furono contrari alla svolta. Del salto nel buio per le prostitute e sul problema della prostituzione come sintomo di miseria narrò il grande regista Antonio Pietrangeli con il film del 1960 “Adua e le sue compagne”.
All’inizio del film si assiste ad un vero e proprio funerale delle case chiuse, in cui dei giovani portano una corona di fiori, simbolo della fine di un’epoca. Dall’archivio della senatrice tra le tante riportiamo una lettera scritta da una signorina: “Ma sempre sono gli altri ad obbligarci a entrare in questi inferni, a ricevere 30 – 35 uomini al giorno, i vecchi sporcaccioni e i giovani infoiati, e quelli ubriachi, e quelli che gridano, e quelli che vogliono sentir parlare. Quasi tutta questa gente, che paga per averci, come bestie al mercato. Perché, e per quanto dovremo sopportare questa vergogna?”.
Al fronte durante la grande guerra le prostitute ubicate nelle retrovie furono obbligate a sostenere ritmi vertiginosi, disumani. Che fine ha fatto quel mondo, si sa. Nel festeggiare la vittoria del suo impegno la prima firmataria Lina Merlin affermò: “Non chiamatele prostitute; sono donne che amano male perché furono male amate”, disse per difendere la sua legge e le beneficiarie. Si aprì quel giorno un nuovo capitolo, non ancora chiuso, ma sempre motivo di dibattito e di divisione politica, ancora una volta..