Il principe Antonio De Curtis in arte Totò (Napoli Rione Sanità Stella 15 febbraio 1898 – Roma 15 aprile 1967) scrisse su un pacchetto di sigarette Turmac mentre soggiornava a Formia presso il Grande Albergo Miramare le prime strofe di una canzone passata alla storia: Malafemmina.
L’autista personale disse che non gli piaceva ma Totò non buttò quel pacchetto di sigarette e ci ha donato una canzone indimenticabile.
Proponiamo ai nostri lettori un brano della sua biografia tratto da “Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto” (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017. (© tototruffa2002.it):
«[…] Nell’autunno 1963 Antonio de Curtis ha sessantacinque anni ma ne dimostra dieci di più.
Si alza sempre molto tardi, gira per la casa in vestaglia e pantofole, se non lavora fischietta motivi per nuove canzoni o detta alla Faldini delle poesie.
Le tasse gli hanno imposto di disfarsi di tutti gli appartamenti a cominciare da quello enorme di viale Bruno Buozzi; ora vivono in affitto, in via dei Monti Parioli 4; la servitù è ridotta al segretario Edoardo Clemente, l’autista Carlo Cafiero, una cameriera, una cuoca.
Ma il principe non rinuncia alla beneficenza: ai bisognosi veri o presunti che bussano alla sua porta, passano dai suoi set o gli scrivono lettere supplicanti, continua a offrire banconote e spedire vaglia.
Ha scoperto una nuova passione in un canile di via Boccea, dove mantiene circa duecento randagi altrimenti destinati all’eliminazione col gas.
Nel pomeriggio si concede qualche passeggiata in auto, una cadillac nera che Cafiero guida a bassa velocità; Antonio non scende mai, osserva quello che può da dietro il finestrino, e fa fermare per bere un caffè che si fa servire all’interno dell’abitacolo.
Di tazzine continua a berne una quindicina al giorno, accompagnate da sessanta, anche ottanta sigarette Turmac.
I medici lo visitano con regolarità e lui è orgoglioso del suo “cuore da atleta”.
La malattia agli occhi si è arrestata, lasciandogli un barlume di vista ai bordi della pupilla, con la quale riesce comunque a seguire la televisione.
La curiosità per il prossimo, mai sopita, si è trasformata; non avendo più occhi buoni per pedinare o osservare col cannocchiale, Antonio de Curtis è diventato uno spione auricolare, tira l’alba in salotto ad intercettare le trasmissioni radio tra naviganti.
La domenica mattina un giovane studioso di araldica viene in casa per leggere e commentare vecchi testi comprati in librerie antiquarie.
Dichiara di ammirare Pio XII, Churchill e Josephine Baker “per l’opera di alta umanità che ha svolto adottando tutti quegli orfanelli di razze diverse”.
Ama come sempre, profondamente, Franca, che si è lasciata alle spalle i ristoranti, le feste e i viaggi in Costa Azzurra per accudire quell’uomo che ha bisogno di lei ogni giorno di più; Antonio non ha comunque troncato i rapporti con Diana, tanto più che il matrimonio con Tufaroli è subito naufragato.
Vede spesso anche la figlia, anch’essa prossima a separarsi da Buffardi.
A volte se ne scappa a Lugano, dove ha affittato un altro appartamento, per passeggiare tranquillo con Franca senza l’assillo degli ammiratori.
A Napoli va almeno un paio di volte l’anno; la notte torna a cercare le strade della Sanità dov’è cresciuto e infila banconote sotto le porte.
Al cinema gli offrono copioni sempre più scadenti.
Sembra passato un secolo da quando poteva capitargli di recitare con Orson Welles o di battezzare il primo film stereoscopico d’Italia.
Al botteghino ora vincono Gassman, Tognazzi e soprattutto Sordi, che il principe guarda da anni con un misto di timore e ammirazione: in casa tiene un quaderno in cui segna gli incassi dei propri film a fianco di quelli del rivale romano.
La mancanza di tenacia dell’attore nel perseguire buoni progetti, e un complesso di circostanze poco fortunate, lo hanno bloccato a uno standard tra serie B e C, per pellicole spesso recensite in poche righe da anonimi vice: “Giravo quei film pensando che il mio successo sarebbe durato poco: un anno, due, tre. Senonché la cosa è andata avanti parecchio, nonostante tutto, ed io sono rimasto cosi, con il desiderio di aver voluto fare qualcosa di più impegnativo sul piano artistico” […]»