Con questi versi del sommo Dante Alighieri, Pasquale Mattej comincia la sua descrizione dei ninfei della villa del principe di Caposele (oggi villa Rubino), articolo pubblicato dall’editore Filippo Cirelli di Napoli nel Poliorama Pittoresco nel 1845.
I reperti archeologici contenuti nella villa del principe Caposele, hanno attratto fortemente il Mattej, che li ha descritti con la sua consueta minuziosità di particolari.
Così descrive i due ninfei:
“… E’ il primo di un interno di una spaziosa sala non molto dalla marina discosta. Vi si penetra per un largo corridoio che all’aspetto sembra a mezzo troncato dalla parte di mezzogiorno, come lo sono anche gli altri che a questo fan continuazione. Un peristilio di otto colonne, quattro per ogni lato, e ciascuna 12 palmi alta, é disposto nel rettangolo della sala, che offre palmi 41 in larghezza e 33 in lunghezza. Tali colonne puntellano un’ampia volta che dal pianterreno si eleva per 24 palmi circa. Essa vedesi simmetricamente scompartita in quadrati rientranti o cassettoni, e nel centro della volta stessa chiuder si dovea una romboidale figura come le due altre nella stessa linea esistenti, allorché si volle in quel punto una larga apertura scavare, a far che la luce (affatto mancante in quella sala) venisse ad irradiarla. Nel destro lato, in luogo delle aperture (che pure queste appariscono essere ivi un tempo esistite e poscia chiuse da muro) vedesi traforata la parete in due punti, e non visibili dieci ordini di tubi di creta cotta che corrispondono in una lunga sala dietroposta, ove son de’ sedili nel fondo, e da questa in altra sala si va nello stesso piano situata. Similmente dalle aperture a sinistra in molte stanze e corridoi si può andare, ma il terreno che in essi è profondato ha queste fabbriche a mezzo sepolte. Un’alcova è costruita nel muro a rincontro della sala, pressoché quadrata, nel suo lato avente palmi 13,5 per lungo e 14,5 per largo; e nel suolo una vasca quadrilatera in due divisa si osserva, ricolma di limpida vena che sgorga perenne dal suolo stesso. Lasciata la descritta sala, verso l’occidente in dritta linea rivolgendo il camino, dopo quattro consecutive volte, delle quali una molto lunga con alcuni frammenti di capitelli di stucco, si trova altra non meno importante reliquia che nell’insieme alla prima sala per somiglianze, ma per talune particolarità e pe’ fregi singolare nel suo genere apparisce. Consiste in altra graziosa alcova che guarda il mezzogiorno e che è lunga 13,5 palmi e larga altrettanto, avente nel lato di prospetto un recipiente di marmo palmi 6 lungo e 4 largo, nel quale per un acquidotto quasi trasversale si versa parimenti acqua. Nel muro che forma il prospetto una sola colonna rimane, alta palmi 14, che sostiene gli avanzi della volta, distrutta dal tempo. L’alcova sopra descritta si vede ripartita in quadrati ordinati elegantemente e disposti in simmetria, e le laterali mura presentano a mo’ di bassorilievo, ornate di cornici per ciascun lato, due differenti porte, l’una a sesto acuto, e semicircolare l’altra. Si scorge tutto il disegno tracciato col rosso della muraglia, da cui è caduto per vetustà l’intonaco, e i chiodi di ferro che sostenevano le cornici rilevate rimangono ancora, abbenchè ossidati, nel muro. Ma è l’intonaco quello che specialmente in questo luogo richiama a sè l’attenzione, perchè osservasi con industria e pazienza condotto interamente con ogni maniera di conchiglie e testacci e crostacei e produzioni varie marine. E’ bello il vedere come co’ gusci delle telline si formarono de’ rosoni e si ornarono le cornici. Nel prospetto rimangono i vuoti, cioè nel mezzo e ne’ due angoli che contenevano grossi testacei che da noi vengono appellati spere; ed alcune marine con creazioni sono si tenacemente al muro incrostate, che si dura fatica non lieve a staccarne una sola, tanto era possente il mastice con che vennero attaccate!
Geloso a ragione di quest’inestimabile monumento, il principe per preservarlo dai danni del tempo e dalla mano dell’uomo chiuselo con cancello, ed il pavimento di mattoni invetriati ed un sedile di bianco marmo vi costruì nell’interno: e avvegnachè ferma opinione egli tenesse che questa l’antichissima Fonte Artacia da Omero ricordata si fosse, di sua mano apponeva nel muro di fronte tali parole: NYMPHAE. ARTACIAE. BIBE. LAVA. TACE… “
La vena di acqua limpida, di cui fa cenno il Mattej, era fonte di ristoro della popolazione dell’epoca, a cui il principe di Caposele consentiva l’approvvigionamento, come si evince dall’acquerello del nostro artista, dipinto nel 1847, che ritrae i ninfei dall’esterno della marina e alcune donne con delle anfore ricolme d’acqua sul capo. Evidentemente al principe di Caposele il chiacchierio delle donne che frequentavano la fonte dava fastidio e la scritta seppur in latino ne era un chiaro avvertimento: “ALLA FONTE ARTACIA, BEVI, LAVA E TACI”.
Nelle immagini le due litografie delle antiche sale a corredo dell’articolo, l’acquerello dipinto nel 1847 e una fotografia attuale del ninfeo minore.