Cari lettori desidero raccontarvi le vicende di un cittadino formiano morto all’inizio del secolo in corso, a ottantadue anni. Cittadino quindi del ventesimo secolo, protagonista di una storia condivisa da tanti uomini della sua epoca. Parlo di Angelo Di Russo, nato in una famiglia numerosa con sei figli (oltre al nostro protagonista Maria, Concettina, Civitina, Erasmo e Antonio, unico vivente). Va poco a scuola, consegue solo la licenza elementare (anche se allora era già un titolo valido) e si avvia sin da minorenne al lavoro.
Viene reclutato dalla Regia Aereonautica, la più giovane arma delle nostre forze armate, e spedito in Africa Orientale Italiana, dove Vicere è il Duca Amedeo di Savoia – Aosta. All’inizio della guerra nonostante l’eroismo i nostri vengono sopraffatti dalle forze inglesi, soverchianti per numero e mezzi. Fatto prigioniero Angelo Di Russo vivrà l’esperienza dell’arroganza inglese (che odiava profondamente), sino al punto da raccontare ai figli che erano peggio dei tedeschi. Almeno con quest’ultimi – diceva – si poteva ragionare. Vivrà anche questa dolorosa esperienza internato presso il Stammlager con la qualifica di prigioniero di guerra.
Era un bellissimo giovane, alto, biondo e con lineamenti che facevano sembrare lui stesso un tedesco. La famiglia conserva una lettera che gli scrisse la sorella Maria mentre era prigioniero in Germania, sopportando ogni stento. Una lettera per alcuni versi tragicomica nella quale la sorella lo invita a stare calmo in modo che il tempo gli passa più veloce però gli comunica che non hanno più nulla, la famiglia ha perso tutto e unica consolazione che anche i signori sono in mezzo alla strada. Ci vuole molta fantasia a considerarla una lettera consolatoria, ma appare di più come una lettera di una sorella che per evitare future delusioni del fratello al suo rientro in patria gli presenta subito lo stato della popolazione civile formiana. Non vi è più nulla, né per i signori né per gli operai e i contadini.
Successivamente il presidente della Repubblica Sandro Pertini e il ministro della Difesa Giovanni Spadolini il 9 febbraio 1985 gli conferiscono nella sua qualifica di deportato politico non collaborazionista il diploma d’onore “al combattente per la libertà d’Italia 1943 – 1945”. Al suo rientro Angelo Di Russo non si lascia prendere dallo sconforto. Sposa la donna che ama Maria Ciano e con la quale ha sette figli, di questi quattro attualmente viventi. Tutti lo ricordano come un grande lavoratore. Ha fatto per tutta la vita il manovale per ditte formiane, ma la sua giornata non è mai terminata con il suono della campana. Iniziava per lui un secondo lavoro e parimenti il sabato e la domenica. Qualsiasi sacrificio pur per non far mancare nulla ai suoi adorati figli. Era anche un provetto sub e lo utilizzarono in tale veste sia durante la guerra che nella vita civile. Quando nel porto di Formia una nave ormeggiata aveva bisogno di assistenza lui, senza alcun utile, si gettava in acqua privo di bombole e sbrogliava la nave. È da evidenziare che ai suoi tempi fare il manovale era durissimo. Qualche esempio: ora i sacchetti di cemento sono da 25 kg., mentre allora erano da 50 kg. Si portavano nei piani superiori e sui terrazzi a spalla. Si lavorava di piccone e pala, niente betoniere.
A sessantacinque anni sembrava molto più anziano, solo i suoi capelli erano rimasti giovanili color cenere, ma con tutte le articolazioni rovinate dagli sforzi continui, senza sosta o riposo. Rimasto vedovo per un male incurabile che aveva colpito l’adorata sposa era divenuto un solitario, senza entusiasmo. La sua unica gioia era quella di coccolare i nipoti tutti, confermando un carattere generoso e buono. Prima del suo ultimo periodo esistenziale il suo unico sfogo era quello di recarsi ogni tanto a Castellone in quei locali che esponevano le frasche fuori quando avevano il vino novello e fermarsi a bere con gli amici qualche buon bicchiere di vino e fumare con passione. Purtroppo troppe sigarette che gli hanno rovinato bronchi e polmoni; l’ultimo periodo tutti i suoi figli hanno fatto a turno ad assisterlo, dovevano saldare con lui un debito di riconoscenza. Quel padre che si spegneva aveva dato tutto a loro, li aveva amati oltre ogni misura, oltre al dovere paterno, li aveva sostenuti ogni giorno della loro esistenza perché carne della sua carne.