Formia nella descrizione dei viaggiatori del Grand Tour – Uno scrittore stregato dall’Italia, luogo di incanto, di poesia, di pace e di romanticismo, fu Hans Christian Andersen. Solo pochi addetti ai lavori  conoscono il romanzo “L’Improvvisatore” di Hans Christian Andersen, che fu l’inizio della fortuna  e della fama dello scrittore di Odense, che riversò in esso le molteplici sensazioni ed emozioni accumulate nel suo viaggio in Italia, tra il 1833 ed il 1834, intrapreso a scopo di formazione culturale, grazie al sussidio assegnatogli dal re Federico VI di Danimarca, che gli elargì  una lunga serie di sussidi con cui Hans Christian si mantenne, spianandogli il cammino sulla via della celebrità. Tale viaggio, dei 29 lunghissimi e a volte tragicomici viaggi per il Vecchio Continente, lasciò una traccia rilevante nella sua opera letteraria e permise al famoso autore di fiabe, il re Mida della favolistica mondiale, di trovare se stesso artisticamente, quale disegnatore, un aspetto quasi ignorato della sua attività culturale, meritevole di recupero per la pregnanza espressiva degli schizzi, eseguiti a matita, di fine fattura, che prelude a Van Gogh, dai quali traspare una nostalgia per il mondo incantato, di cui è sostanziato L’Improvvisatore, il più famoso dei cinque romanzi dello scrittore danese, una storia parzialmente autobiografica, corredata da osservazioni sulla plurisecolare vicenda storica, sui monumenti e mondi antichi, sugli usi, sui costumi, sul carattere delle popolazioni, sulle tradizioni e sulle feste nel romantico Ottocento; osservazioni acute, grazie agli estri e alla curiosità del Nostro, a cui si deve, assieme al Goethe, la più eloquente ed ispirata descrizione dell’aura mitica che avvolgeva il Bel Paese e delle particolarità spirituali del popolo italiano.

Formia nella descrizione dei viaggiatori del Grand Tour –    Questo inesauribile, animatissimo flusso di impressioni italiane è espresso, oltre che con ricca vena creativa, con grande spontaneità, essendosi l’Andersen abbandonato agli impulsi della sua natura e alla poesia della sua anima di eterno fanciullo, piena di slanci, di inquietudini, di incertezze. Durante la permanenza nel nostro Paese, fecondo in ogni senso, il fulgore abbagliante del sole italiano, la flagranza della campagna, il paesaggio pittoresco, tutto colori, avvinse lo strano lungagnone venuto dal profondo Nord: fu conquistato dai cieli italiani, soffusi di quell’aura luminosa che è tipica delle regioni meridionali, e dai paesi ancora schiettamente eredi della classicità, impregnati di una presenza soprattutto simbolica. Le esaltanti visioni della nostra Penisola, in cui convivono, incontrastate, la storia, l’arte e la letteratura, gli fecero vibrare profondamente le corde del cuore e scrivere pagine palpitanti: per il letterato danese l’Italia era il forziere di tutti i gioielli del mondo, un lacerto di “paradiso terrestre”, di cui sente l’armonia, la purezza, la misteriosa santità, l’intensa umanità, il valore perenne, che unisce il mondo di ieri e quello del suo tempo. Essa era un fulgido sogno, una favola.  Tanto più che egli veniva dalle brume del Nord. Dinanzi alla tipica luce celeste degli orizzonti italiani, dinanzi alle infinite, profumate essenze mediterranee, dinanzi  a tanta pittorica bellezza, che gli fece scrivere: “tutto è come una pittura”, l’animo di Andersen  esultava, credendo di trovarsi nel giardino incantato di Armida, di tassiana memoria.  Egli si tuffa nell’ affascinante, luminosa, morbida natura della fruttifera Campania, a contatto con la vegetazione meridionale della penisola.

    Formia nella descrizione dei viaggiatori del Grand Tour – Quella del brutto anatroccolo è un’irresistibile attrazione, una fascinazione, una sorta di voluttuosità sensuale per il cielo luminoso, per le vestigia di un grande passato, per il quale affluì in Italia, per secoli, un pellegrinaggio di artisti, venuti come fedeli dell’Islam alla  Mecca, e di giovani uomini benestanti del Nord Europa, che intraprendevano il Grand Tour, il viaggio di conoscenza attraverso l’Italia, dopo aver terminato gli studi classici e umanistici, oltre a re,  a regine, a  principi, a papi, a beati, a cardinali, a vescovi, a generali, a sir, a conti, a musicisti, per vivervi in piena luce. I suoi riflessi li affascinano, il suo sole li quetano. Essi vanno a caccia della felicità sulle spiagge, nei giardini, nei palazzi, nei siti archeologici, nei musei, nelle chiese, nei castelli.

    Formia nella descrizione dei viaggiatori del Grand Tour – Il poeta “beveva” quest’atmosfera solare, che pervadeva ogni fibra del suo essere, “a lunghe sorsate”, come scrisse alla sua amica Henriette Wulff, una fanciulla gobba ed inabile: “posso bere un’aria mai gustata prima, mangiare grandi grappoli d’uva e udire le dolci voci che mi fanno sciogliere il cuore. Non provo nostalgia, semmai tristezza al pensiero di dover lasciare questo paradiso!”. Per Andersen l’Italia aveva avuto in dono una cornucopia di frutta e di fiori, che profumavano l’aria, mentre alla Danimarca era toccato soltanto una zolla d’erba e qualche macchia di rovo.

  Formia nella descrizione dei viaggiatori del Grand Tour – Di fronte allo “splendore del sole” mediterraneo e alla luminosa atmosfera del Sud, il celebre favolista (per lui la vita è una fiaba e questa fiaba è condotta dall’inizio alla fine dalla Provvidenza divina) sentiva l’impotenza della sua rappresentazione grafica, incapace di rendere le vivide e variegate immagini che vedeva. Un benessere profondo lo invase nel viaggio da Roma verso Napoli, in cui restò avvinto da Terracina, cittadina di grande importanza strategica. Ecco come l’allora ventinovenne romanziere, nel suo dettagliato diario, descrive ( lo fa con gli occhi di un artista, con vivida immaginazione) la cittadina tirrenica: “ Il mio occhio era abbagliato dalla bellezza di quel quadro ed entrai in Terracina immerso in sogni silenziosi”…Vi si coglie una grande vivacità che il tempo non ha appannato, vi spira benessere. La felicità di quell’ora e la suggestione profonda della storia si fondono con il mare azzurro e lucente, con il profluvio di limoni, prossimi alla maturazione, e di fiori.

                      Formia nella descrizione di Andersen

                     

  Formia nella descrizione dei viaggiatori del Grand Tour – Hans Christian Andersen scrisse “L’improvvisatore”, opera capitale del romanticismo europeo, in cui il lettore riconoscerà numerosi topoi e svariate suggestioni di grande modernità

Formia nella descrizione dei viaggiatori del Grand Tour – Il viaggio verso Napoli, durante il quale Andersen, quasi in gara con se stesso, si prodigò tra schizzi a penna, suggestivi “scarabocchi”, dai densi tratti, in cui ci sono movimento ed acutezza di percezione, e note di diario, risulta essere tra i più felici della sua vita. È un coraggio tutto nuovo quello che lo spinge a più complicate osservazioni.

  Formia nella descrizione dei viaggiatori del Grand Tour – A Mola di Gaeta, l’odierna Formia, l’attenzione dell’introverso scrittore danese fu attirata da una torre colossale ed isolata, completamente ricoperta di caprifoglio e di altre piante rampicanti. Era la cosiddetta “tomba di Cicerone”, dove il celebre oratore arpinate, proscritto, per volere di Antonio, fu ucciso dai sicari di costui, mentre cercava di mettersi in salvo. Cicerone fuggiva dalla sua villa formiana, nascosto nella sua lettiga, quando fu raggiunto dal tribuno Popilio, di cui, nel passato, era stato il patrocinatore, che gli tagliò il capo e le mani. Bella riconoscenza! Come scrisse François-René Chateaubriand nel “Viaggio in Italia”, edito nel 1827, “Antonio ricevette al “Forum” la testa e le mani di Cicerone; dette una corona d’oro e una somma di duecentomila libbre all’assassino; non era il prezzo dell’affare: la testa fu inchiodata alla tribuna pubblica in mezzo alle due mani dell’oratore”.

  Formia nella descrizione dei viaggiatori del Grand Tour – Andersen e gli altri viaggiatori furono condotti dal vetturino alla “villa di Cicerone”, così  denominata  perché occupava il sito dove era una volta la casa di campagna dell’Arpinate, il migliore albergo della zona, da cui si poteva godere una vista che compete in magnificenza con quella del golfo di Napoli. Il re Mida della favolistica mondiale ricorda così il suo arrivo al “Capucilla” : “La strada diventava ridente; le colline di forme varie dispiegavano ai nostri sguardi un lusso ammirevole di vegetazione. Ci inoltrammo per un viale di enormi allori e scorgemmo dinanzi a noi l’albergo menzionato da Federigo. Il primo cameriere di servizio, un tovagliolo sotto il braccio, ci attese sulla cima della scalinata esterna decorata di busti e di vasi di fiori”.

   Antonio e Federigo, protagonisti de “L’Improvvisatore”, salirono su un balcone costruito in pietra, da cui si vedeva il mare e che aveva la vista sul giardino, una sorta di Esperia, di cui aspirarono l’aria fresca e i profumi. “Quale magnifica natura! L’immaginazione non saprebbe creare niente di più sontuoso! Sotto di noi vi era un bosco di aranci e di limoni sovraccarichi di frutti d’oro; sotto il loro peso, i rami degli alberi si curvavano fino al suolo. Dei cipressi alti quanto i pioppi della Lombardia facevano da confine al giardino; apparivano doppiamente scuri per la prossimità in cui si trovavano dal mare, che spingeva  le sue onde azzurre contro le rovine delle terme e dei templi antichi siti fuori del giardino. Vascelli e barche navigavano, dispiegate le loro vele,  nel placido porto intorno al quale è costruita Gaeta. Al di sopra della città s’innalza una piccola altura la  cui sommità è coronata di rovine antiche. Ero come abbagliato dalla maestosa bellezza di questo quadro.

   “Vedete il Vesuvio? Come fuma!” mi disse Federigo indicandomi, sulla sinistra, laddove la costa diviene scoscesa, come delle leggere nuvole che galleggiavano su questo mare di una indescrivibile bellezza. Mi abbandonai, con uno stupore da fanciullo, all’ammirazione che mi ispirava questa vista nuova per me; ammirazione che Federigo condivideva. Non potemmo resistere al desiderio di discendere  in questo giardino; errammo sotto gli aranci folti, baciai i frutti d’oro sospesi ai loro rami e, avendo raccolto qualcuno di quelli che coprivano la terra, mi divertii a lanciarli in aria e nell’acqua, l’una e l’altra di un azzurro sulfureo.

   “Bella  Italia! escamò Federigo con tono di esaltazione. Tale ti vedo oggi, tale tu sei stata presente alla mia memoria, allorché  ero lontano da te! Respirando l’aria aspra delle nostre contrade, rimpiangevo la dolce brezza che soffia qui in questo momento; rivedendo i nostri salici e i meli sparsi nei prati olezzanti, pensavo ai tuoi boschetti di ulivi e ai tuoi superbi aranci! Le acque verdi del Baltico non prendono mai questo colore d’azzurro che hanno quelle del Mediterraneo e il cielo del Nord non è mai luminoso quanto quello del Sud!”.

   Lo ascoltavo curiosamente; il suo rapimento era ispirazione; le sue parole erano poesia.

    “Che impazienza avevo di tornare! continuò. Chi non ha conosciuto il paradiso è più felice di colui che vi ha vissuto e ne è stato bandito! La mia patria è bella; la Danimarca presenta l’aspetto di un immenso giardino riempito di fiori; nessuno dei Paesi situati al di là delle Alpi potrebbe reggere il confronto con il mio; il mare che bagna le sue coste è vasto e le sue foreste di faggi sono immense. Ma cos’è la magnificenza terrena in confronto a quella celeste? L’Italia è la terra della poesia! Doppiamente felice è chi ci può far ritorno!”.

   Ciò dicendo, si gettò, tutto in lacrime, al mio collo. Da questo momento, il mio cuore si aprì interamente a lui; ci mancava, d’altronde, che egli fosse per me un estraneo.  … Non era stato il mio primo amico? Gli raccontai l’ultimo e il più importante degli avvenimenti della mia vita. Il mio dispiacere si mitigò per questa confidenza; fu per me una sorta di consolazione il pronunciare a voce tanto alta il nome di Annunziata  e il descrivere le mie sofferenze… E poi Federigo mi ascoltava con l’affettuosa compassione di un sincero amico. Gli raccontai anche la mia fuga, il mio soggiorno nell’antro dei banditi, il mio incontro con Fulvia… Egli serrò la mia mano tra le sue e lo sguardo simpatico dei suoi occhi, di un azzurro chiaro, penetrò fino alla mia anima.

   Improvvisamente, mentre fiancheggiavamo la siepe del giardino, sentimmo emettere un sospiro proprio accanto a noi; gli alti allori e gli aranci folti ci impedivano di vedere alcunché al di fuori di questa cinta d’alberi. Qualcuno poteva essersi trovato là e aver sentito tutto ciò che avevo detto; era una cosa alla quale non avevo in alcun modo pensato. Scostammo i rami e vedemmo accanto a noi, seduta davanti all’entrata delle rovine delle terme di Cicerone, la signora napoletana… Il suo viso era bagnato di lacrime.

“Giovanotto, esclamò ella con vivacità scorgendomi, la mia indiscrezione è stata ben involontaria! Ero già seduta qui quando vi siete inoltrato nel giardino con il vostro amico. Questo posto è così fresco, così delizioso! Voi parlavate a voce alta e avevo inteso più della metà del vostro racconto prima di essermi accorta che si trattava dei vostri casi particolari. Mi avete profondamente commossa; ma non avrete motivo di pentirvi di avermi messa, senza saperlo, nella vostra confidenza. …La mia lingua è tanto   discreta quanto quella dei morti”.

M’inchinai con un imbarazzo visibile dinanzi a questa estranea, che conosceva ora la storia del mio cuore.

Federigo cercò poi di consolarmi dicendomi che non si poteva sapere quale sarebbe il risultato di questa piccola avventura.

    “Sono, aggiunse egli, un vero maomettano in quello che concerne il fatalismo. E, dopotutto, non c’è segreto di Stato nella vostra storia. Non c’è cuore che non conservi nei suoi archivi qualche penoso ricordo. Forse era la storia della propria giovinezza che questa signora sentiva, ascoltando la vostra; sono abbastanza tentato di crederlo, poiché poche persone versano lacrime per le sventure altrui, a meno che esse non abbiano analogia con le loro.  Siamo tutti degli egoisti, anche in ciò che tocca le nostre pene e i nostri dolori!”  

    La lunga citazione è giustificata dalla notorietà dell’autore danese.   

    Antonio e i suoi compagni di viaggio, nel ritorno a Roma, rividero Mola di Gaeta e i suoi giardini d’aranci, ora ricoperti di fiori che imbalsamavano l’aria. Essi sono colti da delirante felicità, al cospetto di tanta magnificenza. Antonio percorse il sentiero vicino al quale Santa si era seduta e aveva sentito il racconto delle sue avventure.