L’omaggio a Ripellino nasce dall’esigenza, avvertita dai componenti del collettivo teatrale e dai curatori dell’iniziativa, di rendere manifesta la contiguità esistente tra la parola poetica e l’invenzione teatrale, incamminarsi appunto – attraverso l’opera ripelliniana – lungo un percorso di scoperta verso nuovi territori del meraviglioso.
Il rigore critico-filologico e la divagazione fantastica celebrano, nella scrittura di Angelo Maria Ripellino, un rarissimo connubio. Nato a Palermo nel 1923 e prematuramente morto a Roma nel 1978, egli è stato professore di letterature russa e ceca presso l’università di Roma, poeta e critico teatrale del settimanale “L’Espresso”. Ha pubblicato per primo in Italia le poesie di Boris Pasternak (Einaudi 1957) e la prosa di Andrei Belyj (Einaudi 1961), oltre a numerosi altri scrittori slavi tra i quali i poeti boemi Halas e Holan, e varie opere saggistiche. Ha pubblicato anche sei raccolte di versi: Non un giorno ma adesso, 1960; La fortezza d’Alvernia, 1967; Notizie dal diluvio, 1969; Sinfonietta, 1972; Lo splendido violino verde, 1976; Autunnale barocco, 1977 (che confluiscono nell’antologia postuma, Poesie, Einaudi 1990, e nelle più recenti: Poesie prime e ultime, Aragno 2006, Notizie dal diluvio – Sinfonietta – Lo splendido violino verde, Einaudi 2007), e i racconti Storie del bosco boemo (Einaudi 1975; seconda edizione: Storie del bosco boemo e altri racconti, Mesogea 2006). Tra i titoli postumi ricordiamo: Saggi in forma di ballate (Einaudi 1978), L’arte della fuga (Guida 1987), I fatti di Praga (Scheiwiller 1988), Siate buffi (Bulzoni 1989), e la raccolta di liriche Scontraffatte chimere (Pellicanolibri 1986).
Angelo Maria Ripellino è stato un grandissimo critico e traduttore polifonico. Nel suo lavoro critico, la scrittura si fa sovente partecipazione patetica, ardore di testimonio appassionato, dialogo con se stesso: critica non accigliata, mai pedantesca, critica come gaiezza, «tentativo di agghermigliare la gioia della parola». Eppure la vocazione lirica di Ripellino, non appagata di splendere nel “saggio in forma di ballata” o in libri-poema come Praga magica, finisce per esigere un proprio spazio autonomo. All’enorme lavoro pionieristico da lui svolto per introdurre nel nostro paese scrittori, poeti ed artisti di area slava, Ripellino accompagnò per tutta la vita – quasi vergognandosene – l’esercizio (insopprimibile) della poesia, nella quale il mondo come bric-à-brac è “inventariato” alla luce del dolore. Ed egli fu poeta di intensa, preziosa e clownesca melanconia.
Nei suoi versi, il mondo esplode in una fantasticheria di candele, violini, treni e meteore, lontananze geografiche, spettacoli, armadi, stupìte pagine di natura. Ripellino ha inteso « presentarsi con pathos e con indirizzo in un tempo di secche registrazioni, e non celare la propria inermità, le corde del proprio dolore». Ma, sebbene sempre percorsa dal timore del nulla e dal dolore (per le violenze della malattia come per quelle dell’invasione cecoslovacca), questa poesia ha per centro la gioia, chiamata a ferire il grigiore balenando nelle fantasmagorie verbali, nello sfarzo di immagini. «L’esercizio della poesia è una prova di resistenza alle asperità quotidiane e all’indifferenza degli uomini. […] Scrivere poesie nell’assedio in cui siamo invischiati vuol dire caparbietà di non soccombere agli sfaceli, di sopravvivere, tenendo a distanza con la magia del Belcanto, con la pienezza polposa delle parole, con gli esorcismi delle paronomàsie e delle assonanze, la Morte».