Una leggenda costante attribuisce la fondazione di Fondi al mitico Ercole, emblema della forza e del valore, a memoria perenne del luogo dove avvenne una lotta tremenda tra il mostruoso gigante Caco, figlio di Vulcano e di Medusa, dedito alla rapina, e l’eroe divino greco, derubato, mentre dormiva, di quattro dei più bei tori della sua mandria e di quattro buoi rossi, di sceltissima razza, tolti, per ordine di Euristeo, a Gerione, altro mostruoso gigante e re delle Baleari, figlio di Nettuno e di Calliroe. Giovanni Camers in “De origine urbium italicarum” riferisce che Ercole recuperò a Fondi i suoi tori e i suoi buoi. Anche Leo Wolfang e Simeone Leontino, nel Cinquecento, in “De origine et magnis urbibus regni neapolitani “, posero il fatto nella città di Fondi, dove il mito di Ercole è ancora vivo.
L’episodio, descritto da Virgilio, il guastafeste ( pone l’evento sul colle romano Aventino), nel libro VIII dell’ “Eneide”, da Properzio, da Livio, da Ovidio, oltre che da Dante, si conclude con l’uccisione dell’abigeo, terrore dei pastori, per mano del figlio di Giove, che lo affrontò e lo uccise con la sua clava, maciullandogli il viso. Un’arcaica statua marmorea, denominata “Ercole Fondano”, conservata nel museo di Vienna, raffigurante un giovanetto imberbe in riposo, che, nella sinistra, brandisce una clava, appoggiata sulla spalla sinistra, richiama alla mente questa impresa, che va sotto il nome di “decima fatica”. Siamo in un’epoca favolosa, risalente a circa mezzo secolo prima della guerra di Troia. Fondi ha, quindi, un’origine molto antica, più antica della stessa Roma. I fondani, con una punta di campanilismo, sostengono che : “Roma vagiva ancora nelle fasce quando Fondi aveva il suo Senato” (nelle epigrafi si presenta spesso la formula S. C. F., cioè : “Consultato il Senato Fondano”).
L’erudito e storico francese Bernard de Montfaucon, che viaggiò molto in Italia, a scopo di studio, perlustrando le biblioteche pubbliche e monastiche, riproduce in “Antiquités expliquées”, Paris, 1719, tomo I, pag. 198, il disegno di una statua innalzata da Tito Claudio Habito. Egli dice : “è Ercole Fondano, tratto dal Gabinetto del Signor Foucault, la cui statuetta è un voto di T. Claudio Habito. E’ fatta menzione del tempio di Ercole Fondano in Vopisco ( storico del IV secolo, n. d. r.). Egli mette nei presagi che riguardavano l’impero di Floriano che il vino di cui voleva fare libagioni nel tempio di Ercole Fondano diviene di colore purpureo. Questo Ercole senza barba porta il diadema sul capo e tiene la clava alzata. E’ forse qui della stessa forma che nel tempio. Io parlerei più positivamente se fossi persuaso che la base in cui è l’iscrizione incontestabilmente antica fosse fatta per la statua; ma ho qualche dubbio su questo”.
Numerosi miracoli vennero attribuiti all’imberbe ma membruto Ercole Fondano. Di essi si hanno reminiscenze classiche : “Veianus nobilis gladiator post multas palmas consecratis Herculi Fundano armis suis in agellum se contulit (il filosofo neoplatonico Porfirio di Tiro, “ad Horat.”, I, Ep.14, n. d. r.); “Vinum, quo libaturus Tacitus fuerat in templo Herculis Fundani subito purpureum factum est ” (il già citato FlavioVopisco, biografo siracusano di Aureliano, Tacito, Probo, Caro, Carino e Numeriano, “in vita Floriani”,4, riporta che nel tempio di Ercole Fondano avvenne il prodigio del vino cangiante colore, diventando subito purpureo, n. d. r.).
A Fondi fu rinvenuta un’epigrafe, riportata da Luigi Maria Pratilli nell’opera “Della via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi”, Napoli, 1745, pag. 132, e letta nel Palazzo Baronale. Riportiamo l’iscrizione votiva, a caratteri capitali, integralmente : “HERCULI INVICTO / SAC. / FUNDAN. / L. GAVIUS L. F. LENA / C. VALERIUS FELIX / PATR. PEC. SUA P.”
Ercole ebbe a Fondi un culto speciale, per l’influenza delle colonie greche dell’Italia meridionale. I fondani avevano per lui una particolare venerazione e gli offrivano la decima parte di quello che guadagnavano. Fondi fu grande e popolosa già in epoca preromana, sotto i fieri Aurunci, bellicosi, irriducibili, acerrimi nemici dei Romani, mai domi in lunghe lotte, impegnative per molte generazioni italiche, nelle quali, alla fine, prevalsero il Senato e il Popolo Romano, più preparati militarmente, più inflessibili e più saldamente organizzati e meglio protetti dagli dei e dalla fortuna delle armi. In poche parole, i più forti in assoluto.
Le testimonianze più remote dell’antichissima Fondi sono costituite dalle sue mura, note anche con l’appellativo di “ciclopiche” o con quello di “pelasgiche”. Meglio sarebbe definirle con il termine di “megalitiche”, cioè formate da grosse pietre sovrapposte. Analogamente un sito archeologico, rinvenuto, di recente, in territorio itrano, di notevole importanza, dedicato, anche questo, al culto di Ercole, farebbe pensare ad una stretta correlazione tra i due territori finitimi, di un antichissimo ceppo etnico comune, forse anche di una comune maestranza di artieri, che costruirono, come sosteneva von Goethe, per l’eternità. Trattasi della “masseria Valle Trònole”, ovvero masseria Valle dei Tuoni, dove sussiste un poderoso terrazzamento arginato da un solidissimo muraglione megalitico, alto circa quattro metri, lungo 80 da un lato e 25 dall’altro, ascrivibile al IV secolo a. C., su cui, tra i numerosi oggetti rinvenuti da alcuni membri dell’emerita Associazione Archeologica Ytri, a seguito di fattori occasionali, si è trovato un triobolo di Neapolis, databile al 310 a. C.., al tempo della costruzione dell via Appia. Sulla moneta argentea figura l’immagine di Apollo incoronato di alloro. Il terrazzamento presenta larghi blocchi poligonali, disposti in filari, accuratamente lavorati e connessi con singolare diligenza durante la costruzione, con interstizi rincalzati da sassi più piccoli. Questi massi sovrapposti, bugnati, provenienti da roccia compatta e di elevato peso specifico, di assai progredita ingegneria, tenendo conto del tempo in cui la grande cinta muraria fu costruita, sono di una tale straordinaria possanza che, osservandoli, ci sembra quasi di vedere cambiate in vere le favole dei Titani, che svellono i monti e li pongono, gli uni sugli altri. Siamo in un’epoca in cui il Lazio meridionale era caratterizzato da un ambiente pastorale semitribale, quindi certamente poco evoluto, che non aveva ancora un’organizzazione politico-sociale, ad eccezione dei rapporti religiosi e di importanti funzioni sacrali, che si conservarono tenacemente tra questa antica popolazione italica, legata alla religione pagana, “degli dei falsi e bugiardi”.
Strutture ardite, opere formidabili di esseri giganteschi e dotati di forza prodigiosa come Oceano, Ceo, Crio, Iperione, Giapeto, o di un popolo leggendario, i Ciclopi, grandi costruttori, secondo tradizioni vive in Eubea e in Argolide, oppure dovute agli Etruschi, che invasero la Campania, di cui faceva parte Fondi, nel IX o nell’VIII secolo a. C. ? Ci abbandoniamo all’incommensurabile dono della fantasia poetica tornando a ritroso nel tempo, quando, ai primi vagiti della nostra civiltà, dietro l’enorme barriera dei blocchi ciclopici, che ci suggestionano con la loro rude maestà, tornavano dal pascolo le greggi con grande frastuono di campanacci e di belati; tornavano i pastori e gli agricoltori. Le porte con architravi monolitici si chiudevano; l’arce dormiva, chiusa dai blocchi che le circondavano da circa tremila anni, che rafforzavano balze montane, già naturalmente forti, e sbarravano i declivi con i grossi massi divelti alla collina, a furia di braccia e di leve, sotto la necessità impellente di una pronta difesa, un vero istinto primordiale dell’uomo, e di uno sbarramento ad ogni eventuale incursione contro il nucleo centrale del distretto campagnolo. Tutto ciò per la sopravvivenza sperando in un futuro migliore.
Il sito itrano, ai piedi di Monte Grande, che in età romana apparteneva al territorio fondano, è in una posizione panoramica straordinaria, con una dominanza visiva a 360 gradi, che consentiva agli Aurunci un controllo strategico su tutta la pianura, una guardia ai passi o ad assi viarii preromani, a difesa del bestiame dalle frequenti incursioni degli Osci o dei Sanniti. Su questa area sono stati rinvenuti sette blocchi lavorati recanti iscrizioni, che risalgono alla seconda metà del II secolo a. C., il busto marmoreo di un togato, di età augustea-tiberiana, una monumentale, spettacolare gradinata di 16 metri in lunghezza e 7 metri in altezza, un’altra epigrafe attestante la gens Allia, incisa su tre blocchi riutilizzati come gradini, due ex voto (il materiale, in argilla grossolana, si trova in abbondanza sul posto, dove probabilmente c’era una fabbrica di questi votivi, in stragrande maggioranza riprodotti a stampo) e numerose monete campane, romane ed abruzzesi.. La struttura del terreno, di proprietà del prof. Tommaso Ialongo, che ha generosamente donato il fondo rustico al Comune di Itri, ancora da ridefinire nella sua intierezza e certamente più esteso di quanto ad oggi in luce, fa pensare ad un antico “pagus”, fondato sulla presunzione della consanguineità, o “oppidum”, del quale le mura sarebbero il castelliere o la difesa per questo consorzio rurale. Una divinità peculiare di questo ambiente pastorale è soprattutto quell’Ercole legato ai vari aspetti della pastorizia, che compare in Italia nel periodo arcaico, connessa al culto delle acque sorgive, da cui deriva l’aspetto terapeutico ed oracolare. Protettore dei mercanti e delle vie di comunicazione, patrono degli accordi e vindice dell’onestà, l’Ercole italico ha un’ampia area di diffusione, in stretta relazione con le vie di transito delle transumanze, antica e radicata, e in collegamento con l’interno della Valle del Sacco, con i santuari della media Valle del Liri.
In località “Valle d’Itri”, sulla strada statale n. 82, meglio conosciuta come via Civita Farnese, un asse trasversale alla “regina viarum”, rinvenimmo, nel novembre 1997, presso la casa di campagna dei Burali D’Arezzo, alcune pietre squadrate, fra cui due lapidi sepolcrali, abbandonate alle intemperie e ai furti archeologici. In una di esse, con grandi e belle lettere accuratamente lavorate a martellina, con gli interpunti a “spina di rosa”, però corrosa dalle piogge e cotta dal sole, è indicato un certo L. Allidio il Numida, a cui è dedicata la lastra sepolcrale da parte di Prothymo Chreste, un liberto che offrì, a sue spese, questo blocco calcareo. L’epigrafe è su 5 linee. Le ultime due rivelano il desiderio del dedicante: che “questo monumento non faccia parte dell’eredità”. La comparsa di Prothymo Chreste suggerisce che il donatore, che da schiavo è stato affrancato, forse dallo stesso Allidio, è senz’altro di origine greca; un liberto importato da lontane province. Lo stesso Allidio è un gentilizio chiaramente non romano, della Numidia, o riferentesi ad individuo che aveva militato nella legione della Numidia, antica regione dell’Africa nord-occidentale, compresa nella parte settentrionale dell’attuale Algeria, ridotta, nel 46 a. C., a provincia romana (“Africa Nova”). La datazione di questa pietra funeraria risalirebbe, quindi, al I secolo avanti Cristo. Troviamo un Q. Allidio edile, “tribunus militum” e “praefectus fabrum” nel “Corpus” di tutte le iscrizioni latine antiche, n. 6228. Questo magistrato fa il paio con quello della “Valle d’Itri”, che, al tempo della centuria agraria (il territorio spettante ad una curia, che constava di 200 jugeri, circa 50 ettari), era parte integrante del territorio fondano. In questo luogo, in epoca romana, sorgeva un’azienda agricola attrezzata anche quale residenza di campagna della famiglia gentilizia che ne era proprietaria. Una villa rustica, una villa-fattoria, un vero e proprio latifondo, secondo un modulo perpetuatosi nel tempo, ben oltre la caduta di Roma, valido cioè per secoli. L’azienda era situata in una zona che godette sempre di una floridezza agricola notevole, di un’elevata fioritura di colture specializzate, come la vite e l’olivo, che occuparono i primi posti fra le coltivazioni di gran reddito, i cui prodotti erano esportati nelle province, sottoposte alla giurisdizione di magistrati romani. Qui, dai grappoli delle viti, si traeva la gradevole ed inebriante bevanda, il famoso Cecubo, il tanto decantato e ricercato vino nell’antichità classica, che il celebre studioso latino Plinio il Vecchio (“tanto nomini”) considerava il migliore fra tutti quelli del suo tempo, per la sua “generositas”. Un “vinum praestantissimum”, eccellente, corposo, spremuto direttamente dai grappoli, di cui erano ricchi i vigneti delle colline itrane e e di quelle fondane. Il Cecubo, bevanda profumata, dal colore ambrato, cantato da Dioscoride, Vitruvio, Cicerone, Strabone, Marziale, Catullo, Silio Italico , Orazio e, soprattutto, da Columella, grande proprietario terriero ed appassionato e competente agricoltore, in “De re rustica”, veniva servito ai viandanti nelle “tabernae deversoriae”, lungo l’Appia. Oggi, in contrada Porcignano, ad Itri, l’Azienda Agricola Monti Cecubi di Antonio Schettino coltiva un vitigno, da cui si produce un ottimo vino, che conserva lo stesso nome, di colore rosso amaranto. Nella vicina Fondi, in contrada Selvotta, si produce un vino speciale, l’ “Abbuoto”, un vino rosso che non è altro che il Cecubo, che si gustava nell’antichità classica.