Mentre riprendono le visite al Carcere Borbonico di Santo Stefano, si lavora ferventemente in queste settimane in via Roma 1, sull`isola dirimpettaia, Ventotene, per mettere in piedi un progetto di recupero della struttura penitenziaria. Primo passo è definire l`utilizzo dell`area, quindi la governance del progetto. Tutto, in tempo rapidi, in primo luogo per limitare le conseguenze del decorso del tempo, quindi per poter beneficiare dei fondi CIPE stanziati per l`opera.
Chi ha avuto l`onore di varcare l`ingresso del Carcere ne rimane catturato. Questo Santuario laico trasuda storia. Ispira. Mette pace. Dà senso di anni di storia e delinea la strada per la nuova Europa. Insieme a Ventotene, rappresenta l`eredità che abbiamo il dovere morale di preservare e consegnare alle future generazioni.
A farne un carcere sono stati i Borbone
La forma a ferro di cavallo della struttura progettata dall’architetto napoletano Francesco Carpi, che ricalca la planimetria del Teatro San Carlo di Napoli, rispondeva a esigenze sia psicologiche (i reclusi potevano guardare solo verso l’interno del carcere, in modo da essere consapevoli del costante controllo a cui erano sottoposti) che pratiche (pochi sorveglianti posti al centro potevano controllare tutte le celle contemporaneamente), secondo una concezione che si andò affermando nella seconda metà del ‘700 in Francia e Inghilterra e che ebbe poi nel Panopticon del filosofo e giurista inglese Bentham la sua più compiuta teorizzazione. Anche la dimensione religiosa è ben presente: il centro del panottico non è solo la torre di guardia ma anche la Chiesa, che rappresenta materialmente l’occhio di Dio.
La struttura circolare – completata nel 1797 – è imponente, con al centro un padiglione dove veniva detta la messa dal cappellano del carcere e dove si somministravano le punizioni corporali. In origine le celle erano 99 (33 per ogni piano), misuravano m. 4,50 x 4,20 e contenevano ciascuna 3-4 persone, ma nel periodo che seguì il fallimento della Repubblica Napoletana del 1799 il carcere iniziò ad accogliere un numero sempre crescente di detenuti, tra cui molti “politici”, fino a toccare il numero di 900. Tra questi, Raffaele e Luigi Settembrini e Silvio Spaventa.
Inumanità ed umanità sofferente
Per comprendere le condizioni di vita del penitenziario, si può citare un dato impressionante: in nove anni, verso la metà dell’Ottocento, morirono a Santo Stefano 1.250 detenuti, di cui solo 200 di morte naturale. Nel 1892 le celle vennero divise a metà ed il numero dei detenuti scese ad uno per cella. Nello stesso periodo vennero costruite mura che dividevano il cortile in spicchi per evitare il contatto tra i detenuti politici ed i comuni. In quest’epoca fu aggiunto alla struttura un anello esterno di altre 75 celle.
Dal fascismo ai nostri tempi
Durante il fascismo nel carcere furono rinchiusi molti oppositori del regime (tra questi Pertini, Terracini, Scoccimarro), mentre Ventotene divenne cittadella confinaria, in cui vennero privati della libertà, tra i tanti, anche gli estensori del Manifesto per un’Europa libera e unita (Spinelli, E. Rossi, Colorni). Dopo la Seconda Guerra mondiale, il penitenziario fu utilizzato come ergastolo fino alla sua chiusura nel 1965.
Passeggiando tra le arcate incrinate, calcinacci in terra e interventi parziali di recupero si percepisce la sacralità degli spazi. È in questo fazzoletto di terra, in quest`isola che dà sul mediterraneo che bisogna rilanciare il progetto europeo, plasmandolo con linfa nuova. Un`europa dei popoli e dei comuni. Di questo slancio l`Italia deve esserne protagonista e Ventotene e Santo Stefano ne siano, non simulacri, ma Capitali morali.